8 Apr 2013
TORNANO I DEPECHE MODE CON UN SOUND “MAGICO”
(riverflash) – Si i Depeche Mode, ancora loro. Trentadue anni dal loro debutto, quel “Speak And Spell” che li lanciò nell’Olimpo dei grandi, una carriera costellata da successi e live da tutto esaurito, prima nei club e poi negli stadi. Quasi solo luci, pochissime ombre.
Quel che salta all’orecchio di questo “Delta Machine” è la capacità del gruppo, dopo tre decenni di carriera, di riuscire sempre un po’ a reinventarsi. I synth, in verità abbastanza imbrigliati, difficilmente esplodono, le chitarre aggressive si fanno sentire col contagocce. Questo nuovo album pare quasi avvicinarsi quasi ad una sorta di forma blues. Insomma sono lontani i tempi del trittico “Black Celebration”, “Music For The Masses” e “Violator”, album che ridefinirono totalmente i canoni pop e che nella memoria collettiva si impressero a “pietre miliari” degli anni Ottanta. A conferma del deciso cambio di rotta, Martin Gore dice in un’ intervista: “Scrivere quest’album è stata una bella sfida, perché volevo che i brani avessero un sound molto moderno. Voglio che la gente si senta bene quando lo ascolta, che provi un senso di pace. Questo disco ha qualcosa di magico”.
Infatti le timide “The Child Inside”, “Broken” o “Alone”, tentano di portarci ad una dimensione intimista, ben lontana dai loro episodi più graffianti, Gahan infatti sottolinea come “con questo album abbiamo cambiato il nostro approccio alla scrittura. Non amiamo il suono troppo “normale”, ci piace “sporcare” un po’ i brani, vogliamo che abbiano la nostra impronta”.
C’è sicuramente il “Depeche Mode sound” a cui siamo abituati, ma questo è un lavoro profondamente influenzato dal blues. Ci sono i diavoli del blues, l’essenza errabonda di quello stile, l’avvolgimento che diventa abbraccio di morte una volta sorretto da muscoli che, in alcuni casi, sembrano quelli dei Nine Inch Nails. Certo, il blues è sempre stato presente, in controluce, nella loro musica, sin dai tempi di “Personal Jesus” e nella potenza rivoluzionaria del disco “Songs Of Faith And Devotion” che arroventava il suono marchio di fabbrica della band nelle fornaci della musica nera.
In definitiva, un lavoro con una forte idea di base e una coerenza che non vuole ammalarsi di nostalgia del “come eravamo”. Insomma un esperimento “coraggioso”, anche se, a livello personale, pensiamo sia un esperimento riuscito solo a metà, manca anche un singolo di “razza”.
lobo-(AG-RF) – 08.04.2013