20 Feb 2016
Quentin Tarantino approda al Western-Thriller con «THE HATEFUL HEIGHT»
AG.RF 20.02.2016 (ore 14:31) – Come sempre accade per i film di Tarantino, anche per “The hateful eight” critica e pubblico si sono ancora una volta divisi tra i Tarantiniani fedeli ed entusiasti della nuova opera del maestro, e, all’estremo opposto, gli anti-tarantiniani, che mettono in luce ancora una volta le debolezze e la supponenza del regista . In mezzo c’è chi non abdica a punti di vista preconcetti, in un senso o nell’altro, chi cerca insomma di fare un ragionamento sul film in se stesso e, partendo da questo, una riflessione seria sull’attuale approdo del cinema di Tarantino.
E allora, cercando di rimanere anche noi sul “pezzo”, senza scantonare in un senso o nell’altro, alla proiezione di quest’ultima opera del “maestro”, e cercando quindi di schivare i pregiudizi e insieme l’amore a prima vista nonché l’odio viscerale, tentiamo di scavare nel meglio che questo film ci ha offerto. Senza tacere che esso presenta numerosi difetti, che però non sono tali da far perdere di vista quanto di buono (e talvolta di eccellente) il film riesce ad offrire.
Innanzitutto lo definiremmo un western claustrofobico. Nella parte iniziale del film l’azione si svolge tutta all’interno di una diligenza, ove gli iniziali due passeggeri diventano ben presto quattro, ben tappati all’interno dell’abitacolo per il gran freddo, la neve e la tempesta in arrivo, in un tormentato sentiero del Wyoming. Si tratta di un cacciatore di taglie, John Ruth (Kurt Russell) che tiene legata a sé la sua preda, Daisy Domergue (Jennifer Jason Leigh), Marquis Warren (Samuel L. Jackson), un ex-soldato di colore dell’Unione, anch’egli cacciatore di taglie, che porta i cadaveri di tre ricercati per intascar il compenso, e un improbabile sceriffo di fresca nomina Chris Mannix (Walton Goggins), di famiglia sudista e di dubbia fama per i suoi trascorsi nella guerra civile da poco terminata. I quattro sono diretti a Red Rock, ove però non arriveranno mai. Infatti la bufera di neve li costringe a fermarsi al rifugio denominato “l’emporio di Minnie”.
In questo luogo, formato da una sola ampia stanza con camino, poltrone e sedie, ma anche letti e cucina, si accentua il carattere claustrofobico, perché l’intero film, dopo l’iniziale permanenza nella diligenza, si svolgerà esclusivamente in quello spazio. Il camerone diventerà sempre più angusto perché i nostri quattro viaggiatori già vi trovano altri personaggi sospetti, in luogo della proprietaria Minnie e delle sue aiutanti Inoltre ben presto altri viaggiatori, tutti diretti a Red Rock, prendono posto all’interno dello stanzone. Tutti sembrano avere una ragione plausibile per la sosta, in attesa che il tempo migliori per poter poi recarsi alla loro meta comune, ma tutti hanno reciprocamente l’impressione che gli altri mentano. Ed inizia così una sorta di gioco a scoprire reciprocamente chi realmente sono gli altri e quali reali motivi li abbiano spinti in quel luogo. Tarantino non disdegna di dare un piccolo aiuto allo spettatore, coinvolgendolo nel contempo nella ricerca delle tante verità nascoste: irrompe nel quarto dei sei capitoli nei quali la storia è articolata con una improvvisa voce narrante fuori campo, che offre alcune “dritte” allo spettatore, spingendolo maggiormente ad interrogarsi sui misteri di quello strano rifugio.
A questo punto, e qui risiede la novità e la piacevole trovata del genio tarantiniano, il film vira dal western al thriller, con tanti misteri sul tavolo e tanti interrogativi che saranno sciolti, come nei classici film del genere, gradatamente e talvolta improvvisamente, con veri e propri colpi di scena. E, parallelamente alle risposte agli interrogativi e ai misteri di cui quel camerone è pieno, assistiamo anche alla progressiva e reciproca eliminazione dei personaggi, che richiama alla mente tanti thriller capolavori, primo fra tutti “Dieci piccoli indiani” di Agatha Christie.
Vorremmo subito confermare che tutta questa parte (western-thriller) del film, e cioè la seconda parte dell’opera è la migliore, a nostro giudizio e quella più avvincente e coinvolgente, ove gli stessi dialoghi, forse un po’ stancanti e ripetitivi nella prima parte, all’interno della diligenza, diventano qui tesi e allusivi, funzionali al gioco che si sta svolgendo all’interno del rifugio.
L’impressione è che lo stesso Tarantino partecipi, con toni sempre meno distaccati, al gioco da lui creato e alla fine riesca, come spesso gli accade, a non prendersi nemmeno troppo sul serio, restando al limite dello sberleffo e accentuando il carattere ironico e autoironico della narrazione. Il che, secondo noi è un gran pregio. Una prova di tutto questo? E’ il fatto incontestabile che Tarantino non si rifà alla seriosità del western classico, ma piuttosto strizza ancora una volta l’occhio, come in Django, al Western all’italiana, di Sergio Leone e di altri registi minori, da lui sempre molto apprezzati. Un segnale tangibile di tale “devozione” era rappresentato in Django dalla presenza tra gli attori di una icona del Western italiano, Franco Nero. E qui, in “The hatefull eight”, dalla scelta per la colonna sonora del grande Ennio Moricone, firmatario della musica dei film di Sergio Leone e di tanti altri western all’italiana. La musica di Moricone conferisce al film di Tarantino una impronta inconfondibile ed un ulteriore segno della sua reale ispirazione, al di là di interviste in senso contrario da parte del regista, in verità poco credibili.
Il punto è che l’intero film è pervaso da quel medesimo senso di ironia, che talvolta trasborda nell’umorismo nero, di cui è pieno il genere western italiano. Anche se i punti di partenza della storia sono più che seri: c’è una rivisitazione di un capitolo fondamentale della storia americana, perché l’azione si svolge alcuni anni dopo il periodo che caratterizzava Django, e cioè all’indomani della guerra civile, ove i conflitti, le passioni civili e politiche, i rimorsi e i rimpianti, gli spiriti di rivalsa e la gloria dei vincitori, l’irrisolto confitto tra bianchi e neri, sono tutti lì presenti, sullo sfondo del camerone ove si guardano in cagnesco i vari personaggi, consapevoli che tutti mentono reciprocamente.
E infine la geniale trovata di una improbabile lettera affettuosa di Lincoln al “nero” Maggiore Marquis Warren, che finisce per divenire uno dei motivi dominanti presente e ricorrete nell’intero svolgimento del film, fino alla sua malinconica distruzione, in uno con la eliminazione o auto eliminazione dei personaggi.
Da ultimo, una menzione merita il cast veramente stellare, con particolare riferimento ai quattro della diligenza già citati (tra i quali una rediviva e ispiratissima Jennifer Jason Leigh), ma anche a Tim Roth, che sembra ripetere il meglio della interpretazione de “Le jene” e l’intramontabile Bruce Dern, nella parte del Generale Sanford Smithers, nostalgicamente ancora innamorato degli ideali per i quali ha combattuto nella guerra civile.
Fonte: http://rivegauche-filmecritica.com/