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POST ELEZIONI: UN POPOLO CHE NON HA SPERANZE CERCA LA SALVEZZA NEI SAVANAROLA E NEI MASANIELLO

(riverflash) – Chiuse le urne e contati i voti, i risultati delle elezioni politiche 2013 si sono rivelati in tutta la loro esplosività. Il primo dato da sottolineare con forza è l’ennesimo trionfo elettorale di Silvio Berlusconi: certamente più abile nel vincere le elezioni che nella successiva opera di governo, il Cavaliere è nuovamente riuscito a ottenere il consenso “in bianco” di un terzo del Paese promettendo obiettivi difficilmente realizzabili e sostanziale via libera per furbetti, corrotti e corruttori. “Non si dimentichi mai che si è eletti per operare; e non si opera per essere eletti. La confusione dei fini risulterebbe nefasta.” Queste parole di Giulio Andreotti dovrebbero mettere una pietra tombale sull’infinita epopea del superuomo di Arcore, eppure la strategia berlusconiana ha pagato ancora una volta: venti anni di bugie, umiliazioni internazionali, corruzione e finanza fuori controllo hanno contribuito a screditare tutta la politica, ma non il “Divo Silvio”, considerato al più come un “primus inter pares” di un sistema marcescente. Inoltre, dopo l’appoggio a Monti, che ha fatto il “lavoro sporco” richiesto dall’Europa, il Cavaliere è tornato alla carica smentendo e demonizzando tutte le misure salva-Italia (votate anche dal suo partito solo poche settimane prima) ed ha strappato un pareggio in cui nessuno, solo tre mesi fa, avrebbe creduto. Ha messo per l’ennesima volta all’angolo i suoi scherani, pronti a rottamarlo, dimostrando di essere l’unico ancora in grado di salvare il centrodestra da una disastrosa debacle. Ha messo al tappeto anche la Lega del “finto” ripulitore Maroni che, vendendosi l’anima al Diavolo per la presidenza della Lombardia, si è trasformata nell’ennesima insignificante costola del PDL. Il secondo dato da sottolineare è, indubbiamente, la sconfitta del Partito Democratico di Pierluigi Bersani. Il segretario del PD, poco più di un anno e mezzo fa, in seguito alla resa berlusconiana consumata al Colle, aveva detto: “Non voglio vincere sulle macerie del Paese, preferisco dare l’appoggio ad un governo tecnico di larghe intese per il bene dell’Italia”. Avrebbe potuto dire con maggiore dono di sintesi: “Non voglio vincere”. Il PD ha infatti lavorato alacremente per perderle queste elezioni: appisolandosi sull’incoraggiante risultato delle primarie, sottovalutando come sempre tutti i propri avversari, lasciando le piazze e la gente comune a Beppe Grillo, barricandosi con distacco signorile nei salotti televisivi e nei teatri di fronte a poche centinaia di persone, mentre il Movimento a 5 Stelle ne portava un milione in piazza San Giovanni. Cosa sarebbe successo con Renzi al timone non è dato sapere, di certo fare peggio di così (a conti fatti) sarebbe stato difficile… Bersani ha guidato una sinistra sempre più balbettante, radical chic, che ha dimenticato come si parli al popolo, allo zoccolo duro dei propri elettori, inseguendo un’irraggiungibile sintesi neo-centrista, ma socialista, ecologista, ma modernista, cattocomunista, ma anche finanziariamente liberista, praticamente impossibile da partorire. Qualsiasi opposizione degna di questo nome, al termine di un quinquennio di disastri politici e morali della parte politica avversa, sarebbe riuscita a vincere le elezioni di slancio, proponendo cambiamento e rinnovamento. Il Partito Democratico non ci è riuscito, facendosi condizionare ancora una volta dalla paura di osare o forse proprio di vincere, sancendo la sua definitiva pochezza. Chissà che non tocchi proprio al volto perennemente accigliato di Bersani il duro compito di accompagnare alla porta della Storia i rottami di questa eterna opposizione, a loro volta relitti di quello che fu il Partito Comunista più importante dell’Europa Occidentale. L’ultimo dato incontrovertibile di questa tornata elettorale è stato, come si è accennato, l’exploit del M5S. Beppe Grillo ha avuto il merito di fare la campagna elettorale che molti elettori di sinistra (ma anche di destra) avrebbero voluto, di parlare alle piazze, di proporre cambiamento, di intercettare anche il voto dei delusi di ogni schieramento. Ha minacciato di mandare “tutti a casa” ed ha fatto man bassa delle preferenze di chi, in coscienza ed in buona fede, non ne potesse più di uno spettacolo politico tanto vecchio e ridicolo. La dialettica del “tanto peggio, tanto meglio” ha pagato, portando la sua dote anche in questa occasione, sverniciando il PDL, spolpando Lega e PD, divorando Monti, Fini, Casini, Ingroia insieme a tutti gli altri “figuranti” di questa strana campagna elettorale e consegnando all’M5S la palma di primo partito. Si dice che, in realtà, Grillo sia un “fascista”, capace di andare d’accordo solo con se stesso, pronto ad epurare chiunque non la pensi come lui e che molte delle sue battaglie siano strumentali alla creazione di una “macchina del consenso” difficilmente praticabile nella politica reale. Tutto vero (forse), ma il problema potrebbe anche essere ribaltato: di chi è la “colpa” di questo exploit? Di Grillo e di chi lo ha votato, oppure di chi non è riuscito ad offrire un’alternativa davvero credibile alla violenza fascistoide dello tsunami antipolitico? L’avvento dei totalitarismi militari o populistico-mediatici non è quasi mai unicamente imputabile ad un popolo divenuto tutto ad un tratto una “massa di pecoroni invigliacchiti” (come direbbe il Don Bastiano del Marchese del Grillo), ma è anche responsabilità gravissima di chi lo abbia per tanti anni deluso, preso in giro, disprezzato, disinformato ed abbandonato. Un popolo che creda di non avere più speranze cercherà salvezza nei Savonarola e nei Masaniello benchè gli promettano solo la luna nel pozzo. L’unica speranza che ci rimane è quella che le donne e gli  uomini eletti dal Movimento a 5 Stelle siano migliori del proprio leader. Adesso infatti si tratterà di governare, di scendere a compromessi, di confrontarsi con la politica e con i problemi reali, chissà se i grillini riusciranno a reggere l’urto della realtà. “Un politico pensa alle prossime elezioni, un uomo di stato alle prossime generazioni. Un politico cerca il successo del suo partito; uno statista quello del Paese.” Questa frase, attribuita ad Alcide De Gasperi, sconosciuta alle latitudini di Arcore ed ampiamente distorta dal politburo di Bersani e soci, potrebbe essere appannaggio di questa nuova classe di politici provenienti dall’Italia comune e così determinati a distinguersi dalla precedente?

 

di Gianluca Stisi (AG.RF  28.02.2013)

 

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