2 Dic 2014
“OGNI MALEDETTO NATALE”: la recensione
di Valter Chiappa
(AG.R.F. 02/12/2014) (riverflash)
Valerio Mastrandrea, Laura Morante, Francesco Pannofino, Marco Giallini: il meglio della attorialitá italiana. E poi la memoria del talento satirico dei fratelli Guzzanti, un nome nuovo della commedia italiana come Stefano Fresi, reduce dal successo di “Smetto quando voglio”, vero caso della scorsa stagione. Alla regia i nuovi guru della comicità uncorrect: gli artefici di “Boris” Giacomo Ciarrapico, Mattia Torre e Luca Vendruscolo. Le premesse per forti aspettative ci sono tutte; invece “Ogni maledetto Natale” si rivela una Caporetto, da cui tutti escono fuori malconci: autori caduti alla prova del nove, attori appannati da ruoli inconsistenti, pubblico sconcertato da un film inspiegabilmente vuoto.
L’esilissima trama: una coppia di giovani piccioncini divide la festività del Natale fra le due famiglie di appartenenza. Lei presenta al giovanotto i parenti contadini della Tuscia; lui rivelerà di appartenere ad una ricchissima dinastia di industriali.
Questa ennesima riedizione di “Miseria e nobiltà” vuole però prendere il sapore aspro dell’umorismo cinico e corrosivo.
Ma la descrizione dell’ambiente agricolo nella prima parte del film è completamente scollata dalla realtà e basata su pochi, mal recepiti luoghi comuni. Non “brutti, sporchi e cattivi” (e perché poi?) ma cavernicoli, trogloditi che si esprimono in un idioma incomprensibile e agiscono secondo dinamiche comportamentali ancestrali, più bestie che uomini. La casa di famiglia è una spelonca, il bar dove si svolge una riffa una bolgia dantesca; persino il paese ha un nome impronunciabile. Non sarebbe inopportuno che qualche vero abitante della Tuscia facesse sentire la sua voce.
Il ritratto dei ricchi nella seconda parte appare almeno più verosimile. E’ evidentemente un contesto meglio conosciuto dagli autori, benpensanti in cachemire: così il cinico industriale, la moglie filantropa, il figliolo toccato dalla fede e la figlia svalvolata, seppur stereotipi, costituiscono un quadro riconoscibile, che dona maggiore scorrevolezza alla pellicola. Facile, ma comunque efficace, l’idea del filippino depresso che, buttandosi di sotto improvvidamente il giorno di Natale, alza il velo delle ipocrisie di cui quell’aurea apparenza è paludata.
Nei due quadri di insieme gli attori sono gli stessi: i protagonisti quindi svestono maglie di lana ed abiti da caccia, rasano le barbacce incolte, acconciano i capelli e si ripresentano in veste esattamente simmetrica. Anche questa sarebbe stata una buona trovata, se sorretta da un’adeguata scrittura.
Il solo Mastrandrea appare convincente nel registro surreale; sia nel ruolo del rampollo toccato dalla crisi mistica o quando si accalora durante una partita di un improbabile gioco di carte, strappa i pochi sorrisi convinti. Morante e Pannofino vanno di mestiere; la vis comica di Giallini è penalizzata da ruoli davvero evanescenti; Caterina Guzzanti fa quel che sa fare: personaggi caricaturali (in particolare quello della figlia isterica gli riesce bene).
Corrado Guzzanti in particolare pare aver riposto la corrosiva capacità di analisi, che fece di lui il più graffiante ed acuto e osservatore della realtà politica e non solo; ed è triste vederlo riservare le ultime gocce di vetriolo per sbertucciare contadini, che pare non conoscere affatto e filippini, che senz’altro avrà osservato meglio negli appartamenti dei quartieri a lui più noti.
Ma, sebbene quanto sopra sarebbe più che sufficiente, il film in più si macchia della colpa capitale: non fa ridere. Non c’è la battuta, greve o raffinata, non c’è il graffio della satira, non c’è la comicità di situazione. Niente. Durante il tempo della proiezione non si trova mai un motivo anche solo per storcere la bocca.
E si rimpiange di non essere entrati nella sala accanto a vedere Bova e Cortellesi.
È veramente il massimo.
Voto: 4