1 Gen 2018
“NAPOLI VELATA” – Recensione
di Valter Chiappa
(AG.R.F. 01/01/2018)
(riverflash) Protagonista di “Napoli velata”, sin dalla prima scena, è l’occhio. Quello costruito dal vorticoso movimento della macchina che riprende una rampa elicoidale; l’occhio in dettaglio di una bambina, che ha visto ciò che un bambino non dovrebbe mai vedere; gli occhi estirpati come prezzo di una colpa; l’occhio simbolo di un passato doloroso, gli occhi appannati di chi vede ciò che non c’è, gli occhi spenti di chi cammina per la strada senza vedere.
L’occhio che a Napoli è ingannato da un velo che mostra e nasconde, che svela ed occulta. Perché Napoli è velata: città che ostenta le sue opulente bellezze e che nasconde tesori in siti arcani, che s’illumina di sole ed è percorsa da oscuri sotterranei, che espone la sua vita nelle strade brulicanti di folla e coltiva riti carichi di mistero.
Se l’ambientazione urbana, da Roma a Istanbul, costituisce un elemento fondamentale del linguaggio di Ferzan Ozpetek, in “Napoli velata” la città diventa protagonista avvolgente, totalizzante. La vicenda che il regista turco costruisce sul suo ribollente substrato ne è solo una ostensione, i personaggi, di lei permeati, metafore, incarnazione delle sue mille facce. Napoli diventa la casa ideale del regista turco, che nei vicoli dei Quartieri Spagnoli ritrova tutti i suoi luoghi preferiti, il doppio, il mistero, la morte, il fantasmatico, ma anche la ridondanza, strumento tipico del suo linguaggio, eccesso che diventa colore acceso e volti fortemente caratterizzati. In un processo di perfetta osmosi, l’opera che dedica a Partenope, contenente una summa dei temi a lui cari, diviene quindi naturalmente, al di là dei rimandi che in modo improprio ci si è subito affannati a cercare, un film di Ozpetek. Anzi, “Napoli velata” è il film di Ozpetek.
Adriana (Giovanna Mezzogiorno) è un medico legale. Nel suo passato la morte, quella più terribile; nel presente vive di morte, la descrive, la raggiunge percorrendo sotterranei fatiscenti. Come altre volte nella cinematografia di Ozpetek (ad esempio, in “La finestra di fronte”), è un incontro a cambiare il cammino della protagonista: il misterioso Andrea (Alessandro Borghi), che sfrontatamente la trascina in una notte di sesso infuocato. L’Eros, elemento radicato profondamente nella cultura partenopea, come raccontano i reperti del Museo Archeologico Nazionale, è il veicolo che la riconduce verso la Vita, attraverso un percorso popolato di fantasmi da cui sarà necessario liberarsi. Vivere la follia, stavolta quella vivificante del trasporto sensuale, per scavalcare il suo inferno e approdare in un porto tranquillo, nel cuore pulito di un uomo semplice.
Gli altri personaggi della storia costruiscono una trama fitta ed intricata, in cui ci si può perdere arrovellandosi o da cui lasciarsi trascinare, senza cercare la risposta a ogni domanda: la sua indefinizione non è mancanza di scrittura, ma è coerente col soggetto e il risultato cercato. Eppure non sono figure di contorno: è proprio questo tessuto fitto di figure e relazioni a creare, assieme alla città, il velo che rende verità ed apparenza indistinguibili. Per questo le interpretazioni dei comprimari brillano, ognuna portatrice di un filo diversamente colorato: l’ironia e il disincanto di uno straordinario Peppe Barra, la drammatica dolenza di Anna Bonaiuto, la solare sensualità di Luisa Ranieri, la misteriosa fascinazione di Lina Sastri. Unica eccezione un’imbalsamata Isabella Ferrari. E poi una serie infinita di volti straordinari, normali e grotteschi, quelli che solo Ozpetek e Almodóvar sono capaci di trovare e valorizzare.
Giovanna Mezzogiorno segue assolutamente il cammino della protagonista, donando ai suoi tormenti l’intensità che le è solita, ma al contempo abbandonandosi come lei, anima e corpo (è il caso di dirlo) al vitale flusso sanguigno che d’improvviso sente scorrerle dentro. L’ormai onnipresente Alessandro Borghi, tirato a lucido per l’occasione, bene corrisponde a tanto calore o sa accendere guizzi di vera follia nello sguardo chiaro, ma, come altre volte, è meno efficace nell’uso dei registri moderati, come nella rappresentazione della distante algidità del presunto gemello.
In “Napoli velata” Ferzan Ozpetek ritrova l’intensità delle sue prime opere. Il registro drammatico giova al suo linguaggio: rispetto all’impalpabilità che ha afflitto film meno riusciti, quando la ricerca di leggerezza o la mancanza di ispirazione (o entrambe) hanno presso il sopravvento, crea un amalgama spesso, denso, carico di sapori forti, che satura i sensi dello spettatore. Scolpire un velo, come quello che avvolge il Cristo di Giuseppe Sanmartino, è impresa che richiede maestria estrema. Ozpetek ci riesce sfruttando al meglio tutti gli strumenti a sua disposizione: un inedito virtuosismo nei movimenti di macchina, scene complesse perfettamente architettate, location straordinariamente suggestive, fotografia carica di luce e di colore, i volti ed i corpi dei suoi attori, il trasporto che ha condotto la penna degli sceneggiatori.
Napoli aveva bisogno di una rappresentazione che accendesse l’amore per lei. Ferzan Ozpetek lo fa, emendandola da ogni stereotipo, in primis quello della violenza, pur non rinnegata. Lo fa conciliando, pur senza chiarirle, le sue antiteticità: la Vita e la Morte, la luce e l’oscurità, la cultura aulica e popolare. Lo fa, stendendo sulle sue strade, che non sono altro che le nostre vite, lo schermo indefinibile di un velo.
Voto: 7.5