AG.RF 02.06.2015 (ore 12:14)
di Mario Natucci – Vandalo è il primo campione che in Italia ha suscitato il tifo nazionale. Non era un atleta, era un cavallo, un trottatore, che è vissuto dal 1862 al 1888, diventando a forza di successi (più di 300) il primo “campionissimo” amato come lo saranno poi gli assi del calcio e del ciclismo, due discipline sportive che all’epoca non c’erano ancora.
La vicenda di questo campione divenuto leggendario si svolge in gran parte a Bologna. L’Emilia è stata la culla del trotto, il primo sport popolare nell’Italia dopo l’Unità e Bologna, una delle città più aperte allo sport – se non la più aperta – è stata la capitale indiscussa del trotto. Vandalo fu allevato nel Ferrarese, come un secolo e mezzo più tardi il grande Varenne. Non è un caso. Emiliani furono quasi tutti i suoi proprietari, a cominciare dal centese – bisnonno dell’autore – Alessandro Falzoni Gallerani, che compì l’impresa di far diventare trottatore Vandalo, dopo che il re d’Italia Vittorio Emanuele II – primo proprietario – aveva giudicato il cavallo “indomabile e inservibile”. In Emilia c’erano i migliori allevamenti; a Bologna, alla Montagnola, si sfidavano i migliori campioni italiani e stranieri, e vincere su quella pista era il massimo. Vandalo vi vinse cinque volte, impresa record.
Alla Trattoria dei Cacciatori, che sorgeva nel cuore di Bologna, si incontravano gli appassionati di trotto, rappresentanti di una borghesia evoluta attenta al progresso. E lo sport era un elemento di progresso. Alla Trattoria si commentavano le vicende sportive ma anche le novità in campo sociale, politico e economico dell’Italietta post-unitaria, un Paese arretrato rispetto a parecchie nazioni europee, che con fatica stava cercando la strada per il progresso e la modernizzazione. Da quei commenti e da quei discorsi si percepisce la distanza fra l’Italia sgangherata di Minghetti e Depretis e il dinamismo degli emiliani in genere che con un cavallo tracciano un solco di modernità rispetto al pressapochismo fumoso della politica.
Vandalo fu il primo campione capace di entrare nel cuore di un popolo che aveva appena cominciato a essere italiano. Le sue vittorie sui campioni stranieri o conquistate all’estero davano agli italiani l’orgoglio del proprio Paese che per altri motivi non avevano. Nasceva già allora, con caratteristiche peculiari, il tifo nazionale. Ancora oggi l’unico motivo che spinge gli italiani a tirar fuori la bandiera (per il resto oggetto sconosciuto, o quasi) è una vittoria in uno sport popolare come il calcio o la Formula Uno.
L’Unità del 1861 era molto fragile, e lo sport si rivelò subito il fattore unificatore più potente. Alfonso Gatto, giornalista, poeta, scrittore, scomparso alla fine degli anni Settanta ricordava come la fama di Vandalo era arrivata potente fino al Sud e quanto suo nonno a Salerno esultasse e si esaltasse per le vittorie del mitico trottatore: “E io affermo – scrive – che per l’unità d’Italia Vandalo andrebbe messo accanto a Garibaldi e a Verdi; alla loro altezza c’era lui”.
Gli italiani – un po’ troppo ingenuamente – dànno allo sport un significato di forza, purezza, di prestigio che va parecchio oltre il valore in sé dell’impresa sportiva. Questo succede un po’ perché tradizionalmente noi italiani siamo un po’ lontani dalla pratica dello sport e dunque vediamo i campione come semidei, e molto perché siamo passionali e visceralmente portati al tifo. Winston Churchill con la sua ironia graffiante ci ha lasciato un aforisma mirabile: “Gli italiani perdono le guerre come se fossero partite di calcio e perdono le partite di calcio come se fossero guerre”.
Gli spunti del libro non finiscono qui. Vandalo ebbe in sorte un destino singolare, di fare cioè da staffetta fra l’epoca dei cavalli e quella nascente dei cavalli – vapore. Per quattro millenni l’idea della velocità fu legata al cavallo. Ma mentre Vandalo correva facendo nascere un modo di dire (Veloce come Vandalo), stava cominciando l’èra dei motori. I migliori cavalli da corsa – soprattutto trottatori, da Vandalo a Varenne – furono allevati in Emilia, dove era forte la passione per la velocità. Ma là sono nati anche i motori fra i più prestigiosi e veloci del mondo, Ferrari, Maserati, Lamborghini, Ducati. Non è un caso.
Chi è l’autore
Mario Natucci è nato a Padova il 4 marzo 1943, una data di nascita premonitrice, visto che è anche un titolo, sia pure di una canzone del grande Lucio Dalla, e non di un articolo. Di titoli e di articoli ne avrebbe fatti per più di trent’anni per giornali e testate varie. Il titolo più importante è quello che nel ’79 ha dato allo stadio di San Siro, che ha intitolato a Giuseppe Meazza con una iniziativa lanciata dalle colonne della “Notte”. Prima di dedicarsi al giornalismo ha acquisito titoli di altro genere: quello di campione italiano universitario di basket, quello di dottore in Giurisprudenza e perfino quello di Sottotenente dei Carabinieri. Un altro titolo della è quello di imprenditore agricolo. Per la sua proverbiale distrazione e per i suoi viaggi attorno al globo era soprannominato “Amnesy International” dai colleghi della redazione. E questo è il titolo che lo rappresenta in modo più fedele. Alla collezione di titoli, nel 2014 ne ha aggiunto un altro, l’ultimo (per ora) della serie, quello di scrittore, dopo aver pubblicato il libro “Veloce come Vandalo“, storia romanzata del campione di trotto che per primo ha suscitato il tifo nazionale.
Alla professione giornalistica si è avvicinato all’inizio degli anni Settanta scrivendo di basket. E’ stato poi assunto da “La Notte” di Milano, il più importante quotidiano del pomeriggio. Di questo irripetibile e indimenticabile giornale si innamorò e ci rimase per oltre 20 anni. Si è innamorato anche di una collega della stessa testata (Annalisa Bianchi), che lo ha reso marito e poi padre di Silvia.
Dopo la pensione si è lasciato convincere a fare l’addetto stampa della nazionale di basket Over 40, ben felice di tornare a girare per il mondo e di occuparsi di basket. Collabora anche con una trasmissione televisiva di economia e finanza. Ma la sua occupazione principale è dagli Anni Novanta l’agricoltura, anche se i suoi terreni sono lontani da dove risiede: in Emilia (Crevalcore), in Toscana (Monsummano Terme) e nel Veneto (Lazise sul Garda); la sede dell’azienda è in Lombardia (a Basiglio, Milano) – come hanno stabilito le autorità amministrative. Poiché le regioni interessate sono quattro, il nostro gestisce una multiregionale. Come azienda è abbastanza singolare; ma sarebbe più corretto dire che è plurale.
La Toscana assorbe le sue maggiori preoccupazioni. A Monsummano ha realizzato un agriturismo dopo aver recuperato e rimesso in produzione l’oliveto che era abbandonato da mezzo secolo. Come molti olivicultori, è fermamente convinto che l’ olio che produce è il migliore del mondo. Padronissimi di non crederci, ma prima assaggiatelo. Ne vale la pena.
Vuoi essere il primo a lasciare un commento per questo articolo? Utilizza il modulo sotto..