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L’ORSO D’ORO PARLA ITALIANO CON «FUOCAMMARE» di GIANFRANCO ROSI

fuocoammare2di Marino Demata (RiveGauche)

AG.RF 26.02.2016 (ore 22:35) – Dobbiamo ammetterlo francamente: quando l’altra sera abbiamo visto Fuocoammare e lo abbiamo eletto in cuor nostro vincitore dell’Orso d’oro al Festival di Berlino in pieno svolgimento (pur non avendo visto la maggior parte delle altre opere in gara), abbiamo nel contempo avuto seri dubbi che la Giuria, presieduta da Meryl Streep, e composta da Clive Owen, e da attori e registi tedeschi, polacchi, inglesi e francesi e con la sola presenza italiana della Rohrwacher, potesse riconoscerne a tal punto le caratteristiche e le qualità, da insignirlo del primo premio. E invece, per fortuna, ci siamo sbagliati. Noi pensavamo che la Presidente e il resto della Giuria, nella maggioranza così lontani dalla realtà descritta nel film e dalle sue mille sfaccettature, Fuocoammare1non riuscissero a compenetrarsi. Abbiamo dunque sottovalutato la loro bravura, la professionalità e il senso vero del cinema, che li ha evidentemente sospinti a riconoscere in Fuocammare quello che realmente è: un vero, raro gioiello del cinema nostrano, che è sempre capace di dare il meglio di sé, quando abbandona gli stanchi canovacci della commedia o commediola che dir si voglia, oppure quando rinuncia (finalmente!) a girare solo per trasmettere al pubblico messaggi rassicuranti (tanto falsamente rassicuranti!) sulla realtà del nostro Paese.
Si perché Fuocoammare è l’esatto contrario di un film rassicurante: estremizzando potremmo affermare che è un film “sanamente” angosciante. Lo spettatore esce dalla sala con una maggiore consapevolezza delle tragedie e dei problemi che si svolgono a Lampedusa, dei quali tante volte ha sentito parlare, ma che avrà spesso considerati con un senso di lontananza e di non diretto coinvolgimento e a volte anche di assuefazione. Una così direttamente umana visione di quei Fuocammare3problemi, resa per giunta con i toni giusti che riescono a trasformare un film in un capolavoro, lascia lo spettatore con un senso di angoscia e con la consapevolezza che per due ore siamo entrati nell’area della disumanità e della ingiustizia, quella che determina le più gravi tragedie, ma anche della solidarietà e della vicinanza all’altro, del quale spesso, nella nostra frenetica vita quotidiana, perdiamo le tracce…
Abbiamo scoperto, verso la metà del film, che Fuocoammare in realtà è una vecchia canzone che viene richiesta per telefono dalla nonna casalinga del piccolo Samuele, una sorta di innocente protagonista del film. Dall’altro capo del telefono c’è Peppe, unico gestore e voce quotidiana della ascoltatissima radio dell’isola. La voce più famosa dell’iasola! Ma il tedrmine “Fuocoammare” non va solo inteso, naturalmente, nel suo solo significato reale, indicatoci esplicitamente nel film, ma anche nel suo significato metaforico e perfino più letterale: sta ad indicare ciò che accade frequentemente in mezzo al mare, e la messa a fuoco di tante tragedie. In un film, questo di Gianfranco Rosi, che di metafore ne indica tante, non perché il regista voglia giocare con loro, ma perché esse sono indicate dalle cose stesse e dalle situazioni.
Il regista, che ha soggiornato per un anno sull’isola prima di iniziare a girare, per volersi prima fuocoammare_10-1000x600rendere conto fino in fondo della realtà che avrebbe descritto, crea un film che idealmente va avanti su due piani:
1- da un lato la realtà sempre uguale a se stessa dei lampedusani, tutti predestinati al mare, alla vita dei pescatori, a trarre dal mare i mezzi del sostentamento proprio e della propria famiglia, ma anche gioie e dolori. Questo aspetto ci viene illustrato attraverso la storia (vera? Verosimile? Non ha molta importanza!) di Samuele, che è uno dei tanti bambini che vivono sull’isola. L’inizio della sua storia, qual descritta da Rosi, è più proiettata verso la terra che verso il mare. Come tutti i bambini, si arrampica sugli alberi, crea una fionda, si perfeziona nella mira esercitandosi assieme ad un amico, gioca alla guerra fingendo di imbracciare delle armi. Poi viene richiamato dal padre alla realtà: il mare è il suo destino, anche se egli non si sente completamente bene sul mare. Inoltre ha anche un difetto alla vista che lo costringe a trascorrere parte della giornata con un occhio bendato. Il padre racconta a tavola storie di mare: le assenze a volte anche per sei mesi da casa, le difficoltà di Fuocoammare6un lavoro spesso ingrato. Questa parte del film ha volutamente un andamento lento, quasi a voler scandire la ripetitività di una esistenza comune a tanti isolani, per i quali il tempo si misura con l’andamento delle stagioni o con gli eventi atmosferici e dove non bisogna mai aver fretta.
2 – dall’altro lato le improvvise notizie dell’arrivo dei barconi stracarichi di migranti. Ascoltiamo le drammatiche voci attraverso le radio delle motovedette di chi si trova su quelle imbarcazioni, poco più che zatteroni, indicare, su sollecitazione della guardia costiera, la posizione di mare nella quale si trovano, nella speranza di poter essere salvati. E ogni volta che il film vira verso queste vicende, assume un andamento concitato e quasi frenetico, ove il tempo è tutto: bisogna far presto per salvare vite umane, per impedire che uomini, donne, bambini anneghino, come è accaduto a tanti nel recente o recentissimo passato.
Il film ci mostra uno spaccato della generale e totale abnegazione e solidarietà di chi svolge questo lavoro, che non potrebbe essere svolto senza quelle caratteristiche. Il messaggio che passa attraverso lo schermo non è dunque solo di disperazione per chi ha più volte visto la morte in faccia nel corso del proprio viaggio spesso dal cuore dell’Africa, attraverso tanti Paesi e tante frontiere, mafuocoammare_10-1000x600 anche di speranza e di grande solidarietà.
Ma contemporaneamente il film implicitamente suggerisce tanti temi e problemi: primo tra tutti che l’arrivo di migliaia di persone dal mare non può essere problema solo degli abitanti dell’isola, ma di tutti quanti noi, di tutta l’Italia, anzi di tutta l’Europa, e che o c’è una svolta in tal senso, oppure non ne usciremo mai più.
Rosi ci ricorda all’inizio del film che quel breve tratto di mare che separa le alte scogliere di Lampedusa alle coste dell’Africa (appena 70 miglia), ha già inghiottito ben 15.000 vite umane. E quelli che vediamo nel film, quelli che ancora tentano di attraversare quelle 70 miglia, sono ben consapevoli dei rischi che corrono. Ma sono anche consapevoli, come raccontano alcuni, che non correre quei rischi vuol dire avere la certezza di morire nel loro Paese, nel cuore dell’Africa, ove la morte non è una possibilità, ma è l’unica realtà vera che sta di fronte a loro.

Fonte: http://rivegauche-filmecritica.com/

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