di Valter Chiappa
(AG.R.F. 02/11/2017)
(riverflash) Il giallo piace. Il giallo funziona. Da sempre è il genere che tiene in piedi le sorti dell’editoria: offre una sfida intellettuale a chi vuole semplicemente cimentarsi nella soluzione di un enigma, apre le porte a chi vuole indagare fra i recessi più oscuri della mente, dà le ali a chi vuole planare in un ambiente suggestivo, che siano malinconiche periferie o brumose campagne. Ma piace soprattutto agli scrittori: l’inevitabile affezione che nasce verso i suoi personaggi fortemente caratterizzati è la premessa per una redditizia serialità; ma si può ambire a raggiungere chi non ama la pagina, se si immaginano da subito le parole traposte su uno schermo televisivo o cinematografico.
Donato Carrisi, uno dei giallisti di maggior successo del nostro panorama letterario (il suo romanzo d’esordio, “Il suggeritore”, ha superato il milione di copie) non si è fatto pregare e, forte della sua esperienza di sceneggiatore, si è messo personalmente dietro alla macchina da presa, portando nelle sale il suo “La ragazza nella nebbia”.
I produttori hanno intravisto il business e gli hanno messo a disposizione un cast di altissimo livello: dal “Divo” nostrano, Toni Servillo ad uno d’oltralpe, Jean Reno; da una signora del palcoscenico come Galatea Ranzi, ad attrici di consolidato mestiere come Michela Cescon e Lucrezia Guidone; per concludere in bellezza con i magnetici Alessio Boni e Lorenzo Richelmy.
Così Carrisi è partito a dirigere il suo film così come scrive i suoi libri: assemblando gli ingredienti di una ricetta di sicura riuscita. La location, come in molti classici del genere, è un non-luogo, un immaginario paesino isolato fra le montagne; a completare la scenografia, oltre la nebbia del titolo, una spruzzata di neve che, come insegnano gli scandinavi, funziona sempre. L’ambientazione, coerentemente, è in un non-tempo, dove i pregiudizi dei sospettosi abitanti ristagnano immutabili.
Nel classico presepe ha collocato le classiche statuine: una vittima candida ed innocente fra personaggi dalla mente contorta e dal passato pieno di ombre, disegnati per attirare sospetti. E poi i naturali protagonisti di questo mondo manicheo: da una parte il Male, che agisce secondo le sue perverse dinamiche (sempre le stesse in verità), ben note al regista grazie agli studi di criminologia; a combatterlo (o forse no) il poliziotto.
Non è vero, come dice una battuta del film, che “la storia la fa il cattivo”: il giallo lo fa l’investigatore; è lui, con la sua forte caratterizzazione, a rimanere nella mente o nel cuore del pubblico. In questo caso Carrisi costruisce un personaggio ambiguo, infrangendo uno dei dogmi del giallo: il suo detective non cerca necessariamente la verità, bensì una soluzione che possa appagare l’opinione pubblica. Perché la verità non è importante, fosse anche il nome di un assassino, in un mondo dove tutto è finzione (nella ricetta d’altronde non poteva mancare la spezia di un messaggio di critica ai mali del nostro tempo).
Alla fine la confezione del prodotto, diretto ad una fascia media, è accurata. Tutti fanno bene il loro lavoro e i valori tecnici sono elevati, in particolar modo la fotografia. Ma tutto sa di mestiere, di confezione appunto. Gli attori, comunque bravi, non sono da meno: Toni Servillo ripropone per il suo pubblico l’usuale repertorio di espressioni impassibili, alzate di sopracciglia, movimenti della bocca, che ormai costituiscono il marchio di fabbrica di un interprete sempre più monocorde. Galatea Ranzi, gravata da un personaggio posticcio nella sua letterarietà, è quanto mai impostata. Il solo Alessio Boni riesce a dare vibrazioni alle tortuosità del suo ruolo.
In tanta levigatezza nella trasposizione filmica è paradossalmente la trama a risultare sfilacciata. Il flusso che porta alla rivelazione finale si perde in mille rivoli ciechi, gli eventi si succedono senza solidità d’impianto; i processi mentali del colpevole sono nebulosi; i colpi di scena non sono poi tali. Insomma tutti gli ingredienti di un piatto che dovrebbe farsi apprezzare per i sapori forti sono diluiti in un brodo di cottura troppo lasco.
“La ragazza nella nebbia” risulta alla fine proprio come un romanzo giallo: capace di vendere molte copie, buono per trascorrere un po’ di tempo in maniera piacevole. Ma inadatto a figurare sugli scaffali di una biblioteca.
Voto: 6
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