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“IO, DANIEL BLAKE” – Una non recensione

10_Io Daniel Blake

di Valter Chiappa

(AG.R.F. 31/10/2016)

(riverflash) Lo ami subito Daniel Blake. Il viso aperto e improntato al sorriso, lo sguardo fermo, le spalle dritte. Da lui ti attendi una stretta di mano salda o una amichevole pacca sulla spalla. Perché per lui sono le mani che contano: con le mani si fa il lavoro, con le mani ed una matita si scrive, con le mani, le sue che sanno fare tutto, riparare, costruire, oppure stringere altre mani, si aiuta il prossimo.

Lo ami subito Daniel Blake. Lo vedi lontano un miglio che è un uomo buono; ma allo stesso tempo intuisci che è fermo come un mulo, incrollabile nel non rinunciare alla sua dignità di uomo e alla rettitudine. Perché questo è ciò in cui ha sempre creduto, ciò che gli ha consentito di affrontare una vita difficile ed essere comunque felice.

Ma questo è ciò che non basta più in una società, dove prima dei soldi, prima del lavoro, prima delle garanzie è proprio la dignità che si vuole sopprimere. Un mondo che vuole cancellare ogni identità, che vuole trasformare gli individui in entità astratte da catalogare ed inserire in astruse procedure, che vuole rinchiudere una vita di lavoro nell’asettico form di un curriculum. A questo mondo Daniel Blake si ribella gridando, scrivendo sui muri il suo nome. Perché è un uomo e Ken Loach ce lo ricorda sin dal titolo: “Io, Daniel Blake”: un nome ed un pronome personale, il primo.

La vicenda del falegname che, dopo un attacco cardiaco, è costretto a lasciare il lavoro e si trova stritolato dagli assurdi meccanismi della burocrazia nella richiesta di far valere il suo diritto alla sopravvivenza, pur essendo una storia di finzione fatta di tante storie vere, raccolte con amore in un inferno in cui i gironi si chiamano banco alimentare o ufficio di collocamento, non è una rappresentazione documentaristica della situazione del sottoproletariato.

Di queste abbiamo avuto esempi nella filmografia recente: da “Due giorni, una notte” dei Dardenne a “La legge del mercato” per cui Vincent Lindon è stato premiato a Cannes. Ma se i fratelli belgi si sono arroccati nel loro ermetismo emotivo e il film francese ha imprigionato in una cappa di gelo il suo protagonista per descriverne la solitudine, Ken Loach ha scelto, pur tenendosi alla larga dal sentimentalismo, pur raccontando fatti nudi e crudi, di spremerci il cuore e al contempo strizzarci il fegato.

La partecipazione emotiva che il suo film riesce a creare inizia con la scelta dei protagonisti. Loach ha cercato dei volti che potessero creare empatia; li ha trovati in Dave Johns, misconosciuto cabarettista di Newcastle e Hayley Squires, giovane attrice disoccupata, i quali hanno risposto restituendo un’interpretazione strepitosa. Due come noi che, come forse solo loro avrebbero potuto fare, raccontano due come noi.

Loach dissemina poi, fra inflessibili burocrati ed asettici funzionari, un brulichio di personaggi caldi di comprensione e solidarietà, in un contrasto fra umano e disumano che è il leitmotiv del film. Fiammelle che non si vogliono spegnere, perché “un altro mondo è possibile”, come il regista ha affermato durante il discorso tenuto a Cannes, ricevendo la Palma d’Oro.

Vuole amore ed indignazione Loach. E ci riesce, perché Daniel Blake lo ami subito; ed ami il suo mondo di personaggi deboli ma invincibilmente umani e per questo cominci ad odiare visceralmente il mondo gelido e crudele che li circonda e li opprime. Vuole amore ed indignazione Loach, perché vuole chiamarci in causa. “Io, Daniel Blake” diventa quindi portatore di un messaggio forte e potente che parte sì dall’analisi politica (Loach non dimentica di essere Ken il Rosso nella feroce invettiva contro i Tories che mette in bocca ad un uomo della strada), ma da questa travalica e diventa una visione universale del degrado della nostra società.

Per questo, per una volta, vorremmo tralasciare un’analisi dei valori tecnici dell’opera filmica e raccogliere il grido di allarme di Ken Loach. C’è un emergenza e lui, emozionandoci, vuole spingerci alla rivolta; e noi, non più spettatori di un film, vogliamo arruolarci.

Si sta uccidendo la dignità. Daniel Blake paga l’incrollabile volontà di non voler abbassare mai la testa, di non rinunciare ad essere sé stesso, nome e cognome, anche quando tutti attorno a lui si piegano o addirittura si umiliano e la dignità accettano di svenderla, stretti dai morsi della fame.

Sta morendo l’umanità ovvero la capacità di vedere nel prossimo un fratello, sotto una logica che vuole gli uomini trasformati in numeri. Ma cosa può fare la solidarietà dei singoli, come i tanti personaggi che il film mette in luce, quando è il sistema ad essere disumano?

“Io, Daniel Blake” è appunto un inno all’identità, valore insopprimibile. Per questo andrebbe proiettato non nelle scuole, ma nelle aule parlamentari, nelle stanze dei bottoni, ovunque si decida il destino di un popolo, per ricordare che ogni scelta riguarda sempre uomini in carne ed ossa, uomini con un volto, uomini con un nome. Riguarda Daniel Blake.

E allora, usciti dalle sale, gridiamo forte anche noi il nostro nome e cognome. Scriviamolo sui muri, ma in maniera indelebile, perché nessuno mai possa imporci di non essere più uomini. Questo ci chiede Ken il Rosso.

A Cannes sono volate critiche per aver attribuito la Palma d’oro a un regista ottantenne, che sferra l’ultimo attacco della sua eterna battaglia. Si sarebbero voluti favorire giovani cineasti come il talentuoso Xavier Dolan. Ma il regista canadese è giovane e avrà tempo per farsi valere.

Ora c’era una storia urgente da raccontare. Perché Daniel Blake è qui, accanto a noi.

Voto: 9

 

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