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IL “SOGNO DI UNA NOTTE DI MEZZA ESTATE” AL GLOBE THEATRE: STORIA DI UN SUCCESSO SENZA FINE

sognodi Valter Chiappa

(AG. R.F. 16/07/2015) (riverflash)

Un successo preannunciato. Forse Gigi Proietti, per aprire la stagione 2015 del Globe Theatre, ha pensato di andare sul velluto, riproponendo per la nona stagione di fila lo spettacolo, che ormai è una istituzione non solo per il teatro di Villa Borghese, ma per l’intera scena teatrale romana: il “Sogno di una notte di mezza estate”. E il “Sogno” non ha tradito nemmeno quest’anno: tutto esaurito quasi tutte le sere, appalusi scroscianti, pubblico entusiasta. Solo nella replica dell’11 luglio 1086 spettatori, salutati, dopo la passerella finale, da Proietti in persona.

Recensire uno spettacolo su cui si è ormai scritto di tutto ha poco senso; vale la pena invece cercare di comprendere le ragioni di un tale successo, poiché esse suggeriscono interessanti spunti di riflessione sulla gestione di una attività, quella teatrale, che, mai ricca, oggi è toccata in maniera particolarmente pesante dalla attuale recessione economica.

Non è per l’inchiostro della nostra penna una analisi tecnicamente attendibile della grandezza dell’opera shakespeariana. Per noi spettatori innamorati è semplicemente il testo che raccoglie nel medesimo spazio, dentro lo stretto cerchio di 3 ore di rappresentazione, sotto la copertura di un magico bosco, la favola e la commedia, il sogno e la farsa, sentimenti nobili ed istinti vili, l’amore, la gelosia, l’intrigo, la follia, il teatro stesso.

L’allestimento del Globe voluto dal compianto regista Riccardo Cavallo, che, doveroso ricordarlo, è scomparso prematuramente ormai 2 anni or sono, valorizza al massimo grado la peculiarità del testo shakespeariano, con cambi di scena e di registro che trascinano vorticosamente lo spettatore nell’affastellarsi caotico di situazioni ed intrecci, che si affiancano nel modo più inverosimile, così come accade alle scene di un sogno.
Scenografie evocative, voci alterate, costumi fantasiosi creano la magia dello scenario in cui si muovono Oberon, Titania, le fate loro suddite e lo sbadato folletto Puck, il dispettoso artefice di tutti gli intrecci. Un andamento brioso ed incalzante, con picchi d’ilarità negli arguti dialoghi e nei taglienti scambi di battute fra le protagoniste, caratterizza gli episodi in cui si intrecciano le vicende amorose delle due giovani coppie, Ermia e Lisandro, Elena e Demetrio. Addirittura esilaranti le scene in cui sono protagonisti gli artigiani, scalcinati attori per passione. Felicissime qui le licenze: il capocomico Peter Quince che si esprime in un colorito dialetto partenopeo, le battute che hanno una vis comica da avanspettacolo.

Uno spettacolo fedelissimo al testo, ma al contempo uno spettacolo per tutti. E questa è invero la costante di tutti gli spettacoli del Globe, il marchio di fabbrica della gestione Proietti: anche i testi più ponderosi, le atmosfere cupe del “Giulio Cesare” o quelle oniriche di “La tempesta”, la devastante follia di Lear, il sordido odio di Iago sono stati sempre resi, in ogni allestimento, avvincenti per il pubblico di ogni età e cultura. Shakespeare per tutti: questa la geniale intuizione di Proietti e, conseguentemente il segreto di tanto successo. Perché Shakespeare, il sommo, può essere di tutti, perché nasce per tutti, perché fu sommo nell’essere uomo, perché meglio di ogni altro artista passato su questa Terra seppe raccontare ed analizzare ogni piega e recesso dell’animo umano. E Shakespeare, a Roma, è stato di tutti. Gigi Proietti, con i suoi spettacoli ha portato centinaia di migliaia di persone (56.000 solo per il “Sogno”) a conoscere e inevitabilmente ad amare il Bardo.

Un progetto così ambizioso necessita però di un elemento imprescindibile: grandi interpreti. E così è sempre stato in queste 13 stagioni. Grandi artisti hanno calcato il palcoscenico del Globe; nomi spesso non noti al grande pubblico (anche se non sono mancate in cartellone stelle di prima grandezza come Giorgio Albertazzi ed Ugo Pagliai), ma attori dall’indiscutibile valore, come Melania Giglio e Maurizio Donadoni, che in questi anno hanno furoreggiato sulle tavole del teatro di Villa Borghese.
I protagonisti del “Sogno di una notte di mezza estate” non sono da meno: Carlo Ragone è un carismatico Oberon; Claudia Balboni nei panni di Titania, cambia con sorprendente naturalezza registro, da algida regina a cinguettante innamorata; Elena ed Ermia, le amiche rivali in amore, sono rese con grande vivacità dalle giovani Valentina Marziali e Federica Bern. Anche se ovviamente il pubblico riserva l’ovazione ai suoi beniamini: Gerolamo Alchieri, istrionico e guascone, come il suo personaggio Nick Bottom richiede; Marco Simeoli, l’esilarante capocomico Peter Quince; Fabio Grossi, lo svolazzante, nonostante la stazza, Puck.

Gli attori escono di scena scendendo nel parterre in processione silenziosa, pronti a svanire come furono repentini nell’apparire; una voce fuori campo recita il famoso monologo di Prospero in “La tempesta”:

“Le nostre scene sono finite. Questi nostri attori, come del resto avevo già detto, erano soltanto degli spiriti, e si sono dissolti nell’aria, nell’aria sottile.
E simili in tutto alla fabbrica senza fondamento di questa visione, le torri incappucciate di nubi, gli splendidi palazzi, i sacri templi, lo stesso globo terrestre e tutto quel vi si contiene s’avvieranno al dissolvimento, e, al modo di quello spettacolo senza corpo che avete visto pur ora dissolversi, non lasceranno dietro a sé nemmeno un solo strascico di nube.
Noi siamo fatti della medesima materia di cui sono fatti i sogni, e la nostra vita breve è circondata dal sonno.”

Li guardiamo andar via con rimpianto. Anche per quest’anno il “Sogno” ed il nostro personale sogno è terminato.
L’aria al di fuori è afosa; sappiamo già che non incontreremo fate o folletti sotto gli alberi di Villa Borghese.
Grazie William, grazie attori, grazie amici nostri.

“Ho avuto una visione, la più rara. Ho fatto un sogno che non c’è intelligenza d’uomo che possa dire che sogno fosse. E’ un asino l’uomo che provasse a spiegarlo.
Mi pareva d’essere…mi pareva di avere…ma è un buffone matricolato che si offrisse di dire quel che mi pareva di avere.
Non c’è occhio d’uomo che abbia mai sentito, né orecchio che abbia mai visto, né mano che abbia assaggiato, né lingua che abbia concepito, né cuore che possa riferire che sogno era il mio!”

 

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