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“ELLE” – La recensione

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di Valter Chiappa

(AG.R.F. 09/04/2017)

(riverflash)       Si comincia con uno stupro, di cui si odono solo le urla. Michèle Leblanc, la protagonista, lasciata riversa sul pavimento, si rialza impassibile, raccoglie i cocci della colluttazione, si ripulisce dal sangue con un bagno e ricomincia la sua vita di imprenditrice di successo. Da questo incipit sorprendente si potrebbe, inseguendo le domande che esso immediatamente solleva, dipanare una trama torbida ed avvincente, in un percorso che conduce diritto dentro la mente di una donna capace di una reazione così insolita al più odioso dei crimini. Ma non è così.

Perché il fine di Paul Verhoeven nel girare “Elle” è creare scandalo. Null’altro.

Ai tempi di “Basic instinct”, per riuscire a sollevare il polverone era sufficiente che Sharon Stone scavallasse le gambe offrendo prospettive inedite e tessere in qualche modo un thriller sul filo di una sottile perversione. Oggi non basterebbe più e il regista olandese lo sa. Ed allora infarcisce il suo racconto di situazioni estreme: non solo il perverso legame che si instaura fra aguzzino e vittima, ma anche un ovvio trauma nel passato, stavolta legato a vicende particolarmente truculente, sessualità praticata con gelido cinismo, rapporti umani quanto meno ambigui.

Attorno alla protagonista personaggi da soap opera: una madre stordita ma dai bollori non sopiti (Judith Magre), il marito artistoide e perennemente in bolletta (Charles Berling) un figlio ingenuo fino alla stupidità (Jonas Bloquet) innamorato di una ragazza alternativa e alquanto caratteriale (Alice Isaaz), la migliore amica (Anne Consigny), con cui il rapporto è a tratti pruriginoso, legata ad un collega cinico e lascivo (Christian Berkel), un vicino dai modi affettati (Laurent Lafitte) e la consorte bigotta (Virginie Efira).

Tutto assieme in una girandola senza soluzione di continuità di situazioni, finalizzate esclusivamente a creare sorpresa e disagio, in cui quello che vorrebbe essere il tema portante si perde diluendosi. La scena della cena di festeggiamento, in cui tutti i personaggi riuniti attorno ad un tavolo si producono in una serie di surreali siparietti è una sufficiente sintesi del film. Senza un filo narrativo consistente, senza coerenza nello sviluppo della vicenda, senza un credibile approfondimento psicologico dei personaggi, tutto si riduce ad una carrellata di piccoli orrori, che non producono alcuna partecipazione emotiva. Altro che disturbo.

Anzi, quando la vegliarda madre della protagonista viene sorpresa con un toy boy muscoloso; quando un bambino nasce con una inattesa pigmentazione, non si può che sorridere. Peccato che “Elle” non vuole essere una commedia nera; ambisce al thriller psicologico (o psichiatrico), magari anche al ritratto sociologico e in quest’ottica allora il risultato è grottesco.

Per sua fortuna Verhoeven ha chiamato Isabelle Huppert ad interpretare la protagonista, conscio della naturale predisposizione dell’attrice francese a calarsi in ruoli torbidi. La Huppert ha risposto da par suo, con un’interpretazione per cui ha ottenuto la prima candidatura all’Oscar, in cui ostenta il naturale gelo dell’espressione, si getta con sicurezza in scene scabrose incoerenti con l’età anagrafica, offre con la giusta generosità il corpo non più fiorente. Ma chi si aspetta di rivedere “La pianista” rimarrà deluso.

Ci sono film e film. Non c’è interpretazione che tenga; quando si affrontano tematiche così complesse si corre su un filo sottilissimo. E Verhoeven non è Haneke: Haneke sconvolge, Verhoeven fa sorridere

Voto: 5

 

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