17 Feb 2013
ELEZIONI AI TEMPI DELLA CRISI: L’ITALIA AL VOTO FRA IMPRESENTABILI, OUTSIDER, DINOSAURI E PONTEFICI DIMISSIONARI
(riverflash) – Tempo di elezioni in Italia. Passati cinque anni dall’ultimo trionfo berlusconiano il Paese di Dante, Vespucci e San Francesco (ma anche di Cuffaro, Corona e Ricucci) si appresta a scegliere il nuovo Governo che dovrebbe rappresentare gli interessi della penisola all’estero, ma soprattutto dovrebbe provare ad invertire la rotta della crisi, facendoci uscire dal pantano della recessione. Tempo di elezioni, quindi, ma soprattutto di Campagna Elettorale, quella con la lettera maiuscola, quella di cui si bea la stragrande maggioranza della nostra classe politica ed in cui si illude l’altrettanta maggioranza del popolo italico. “Non si mente mai così tanto come prima delle elezioni, durante la guerra e dopo la caccia…” amava dire il cancelliere tedesco Otto Von Bismarck, il guaio è che, lontano dalla Selva Nera, si menta senza alcun ritegno prima, durante, ma anche dopo le elezioni, segno di un popolo che ha davvero molti problemi a prendersi sul serio, guardando in faccia la realtà senza troppi infingimenti. Cinque anni fa, appunto, Silvio Berlusconi stravinse ottenendo numeri bulgari in entrambi i rami del Parlamento, promettendo una “legislatura costituente”, riforme, lavoro, aiuti concreti alla piccola e media imprenditoria e naturalmente riduzione delle tasse, il suo cavallo di battaglia preferito… Purtroppo sappiamo tutti come è andata invece a finire: sostanziale aumento delle tasse, tagli lineari alla spesa pubblica, condoni, leggi “ammazza processi”, negazione della crisi finanziaria. Eppure le colpe non sono di chi ha governato: sarà stata colpa del tradimento di Fini, dei titoli tossici americani, della Bundesbank (o la Deutsche Bank?), della Grecia soffocata dai generosi prestiti europei, dei ministeri leghisti trasferiti a Monza (ma che fine hanno fatto?), della nipote di Mubarak e della caduta del Colonnello Gheddafi. Fatto sta che la XVI legislatura si è arenata tra le secche dello spread, le cene eleganti dell’ape regina Nicole Minetti, le risate del duo Merkel-Sarkozy e le disarmanti dichiarazioni di “Responsabili” statisti del calibro di Domenico Scilipoti: “Io non so manco che cos’è Standard and Poor’s”. L’Italia ha quindi dovuto chiedere aiuto al Governo dei Professori, una sorta di romantica rievocazione dell’aristocrazia illuminata di settecentesca memoria, che avrebbe dovuto cavare d’impaccio una politica impotente e colta ripetutamente con le mani nella marmellata del malaffare e della finanza facendo tornare credibile il Paese di fronte a se stesso ed al resto dell’Europa. Messi momentaneamente da parte i nani e le ballerine, la credibilità in qualche modo è tornata, ma l’aristocrazia illuminata di Monti e soci, per sua stessa costituzione, non ha di certo potuto portare una ventata di sollievo agli strati più in difficoltà della popolazione. I professori, a parte qualche breve operazione di facciata (tipo i finanzieri a Cortina) hanno scelto di battere la via più semplice, quelle delle tasse a carico dei “soliti noti”, della riduzione dei posti di lavoro e delle tutele dei salariati, dell’aumento dell’età pensionabile, unita ad una riforma di contrazione del sistema pensionistico e previdenziale (sanità e scuola prima di tutto). L’aristocrazia, proteggendo come sempre se stessa, ha preferito pescare a “strascico”, facendo cassa con la solita “paranza”, invece che andare a caccia di balene, men che meno di pescecani. Di certo l’operazione di credibilità internazionale ha funzionato (d’altra parte ci voleva poco per risplendere rispetto ai “cialtroni” che li avevano preceduti), ma l’operazione cresci-Italia non ha fatto del bene al Paese reale. In tutta questa situazione, dunque, la penisola si sta preparando alle nuove elezioni e, per la prima volta dopo una ventina di anni, sembra che gli elettori avranno a disposizione qualche outsider in più nelle pieghe delle loro schede elettorali. Così in questi giorni a Roma sono apparsi alcuni manifesti del gruppo politico neonazista Casa Pound con la seguente scritta: “Il problema non è Fiorito in sè, ma Fiorito in te”, con il sottotitolo: “Smetti di dare ostriche morali al tuo grosso parassita interiore, passa a CasaPound”. Ora… siamo certi che uno slogan, per quanto azzeccato, non possa redimere un movimento xenofobo, antistorico e pericoloso come quello di Casa Pound, ma di certo esso rappresenta una spia di un altrettanto pericoloso vuoto di credibilità e di speranza patito dalla politica e dai cittadini italiani in questo particolare momento storico. E’ un’Italia ben poco serena e speranzosa, quindi, quella che si avvicina alle prossime elezioni. A cominciare dal Pdl scosso da sommovimenti centrifughi a stento tenuti a freno dall’ingombrante ritorno del proprio fondatore. Un partito nato con uno schiocco di dita che rischia oggi di disperdersi con la stessa velocità in una sorta di “si salvi chi può” recitato istericamente dai propri appartenenti, spaventati all’idea di non riuscire a riciclarsi in tempo grazie all’ennesima giravolta politica. Tutti in attesa di vedere se Berlusconi riuscirà ancora una volta a compiere il miracolo, se riuscirà ancora a far sognare gli elettori a suon di balle sempre più grosse e di muscoli di cartapesta. Tutti ma proprio tutti anche i più incredibili, come Storace oppure la Pivetti, fuoriusciti nuovamente dalle loro tane per tentare di elemosinare qualche voto. Nessun programma, nessuna promessa concreta (a parte le solite tasse, stavolta addirittura restituite indietro…), ma solo battute da taverna, autocelebrazione, veleno contro i comunisti, i professori, la Magistratura, l’Europa e chi più ne ha più ne metta. “Dopo di me il diluvio” pare ricordare Berlusconi ai suoi alleati, ma soprattutto agli avversari: Se il Cavaliere riuscirà a limitare i danni impedendo a chiunque altro di vincere davvero (unica ipotesi davvero credibile in questo disperato assalto alla diligenza) tanto meglio, il capo è sempre stato lui e per gli scudieri non cambierà niente. Se non ci riuscirà il “loden” per entrare dalla porta di servizio nel partito dei professori è pronto, chissà in quanti riusciranno ad intrufolarsi… Accanto al Cavaliere, come sempre, la Lega: dopo aver messo all’angolo un Bossi ormai praticamente infermo, l’impresentabile Trota, le varie “badanti” e qualche furbetto “cummenda”, Maroni, a cavallo della propria scopa, è volato ancora una volta in soccorso dell’amico-nemico di Arcore. Pur di salvarsi da una possibile sconfitta in Lombardia, la Lega Nord ha scelto il voto di scambio: Maroni Governatore e Berlusconi ancora alleato: poco importa poi chi sarà davvero il premier se il cavaliere oppure la sua fotocopia sbiadita (Alfano). Chissenefrega che il PDL voglia l’ennesimo condono, avalli le mazzette come scorciatoia internazionale per vincere gli appalti, che il suo leader sia in giudizio (fra l’altro) per Prostituzione Minorile e Concussione Aggravata… le scope servono anche a questo: a spazzare via il passato, ripartendo da zero con nuove promesse, prima delle quali il Federalismo. Promesse, appunto, già fatte almeno in tre o quattro tornate elettorali e mai realizzate. Chissà che il popolo leghista abbia l’anello al naso come tutto il resto dei propri colleghi “terroni”, ai quali ancora una volta proprio in questi giorni è stato ricordato il progetto epocale del ponte sullo stretto. Passando al centro, invece, gli elettori avranno la possibilità di votare il Senatore a vita Mario Monti, sostenuto da Fini, Casini e Montezemolo (siamo in un partito politico oppure nel Rotary Club?), graditissimo all’Europa del rigore e sgraditissimo a chi in Italia paghi davvero le imposte. Palesemente disgustato dai colleghi politicanti (soprattutto sponda PDL), ma atavicamente spaventato anche dai comunisti “de noantri”, impazienti di succhiare il ricco sangue dei finanzieri, va d’accordo praticamente solo con se stesso. Il professore, da vero politico di razza, rifila bordate al vetriolo a destra ed a sinistra, strizzando l’occhio ai belruscones delusi con la promessa di una certa riduzione delle tasse (ma non subito), facendo dell’Europa il proprio centro di gravità permanente e puntando tutto sulla propria affidabilità e competenza. Dopotutto lo spread è sceso ed il mondo (Barack Obama compreso) si fida di Monti, perché gli italiani non dovrebbero farlo? Il guaio è che la sua ricetta di tasse e rigore mal si accordi, a detta della maggioranza degli economisti mondiali, con la crescita di cui il nostro Paese avrebbe disperatamente bisogno. La cura da cavalli è pronta, riuscirà il paziente a resistere? Altro outsider di questa campagna elettorale è il Movimento a 5 stelle di Beppe Grillo. Definito “forza populista” dal Presidente Napolitano nel suo colloquio con Obama (ci sarebbe da chiedersi quale partito in questo momento, tranne forse proprio l’aristocratico Monti, non faccia del populismo il proprio primo motore) che viene accreditato da molti sondaggi come il terzo oppure addirittura il secondo partito italiano. Il suo merito è quello di aver presentato al parlamento, con un certo moto di “democrazia dal basso”, delle liste di candidati fatte di gente comune, senza procedimenti penali a carico e lontani dalla politica di mestiere. Il programma del M5S è ricco e comprende ambiente, connettività, telelavoro, rifiuto delle grandi opere e degli inceneritori, raccolta differenziata, trasparenza negli incarichi politici ed economici, rifiuto dei finanziamenti pubblici ai partiti (detti anche contributi elettorali), rifiuto dei contributi all’editoria, abolizione dei sindacati e sostanziale rifiuto delle politiche economiche europee. Una “summa teologica” di facili risposte a problemi complessi, insomma, persino accattivante in alcune sue sfaccettature se fosse davvero praticabile. Purtroppo tali slogan avranno l’onere di essere passati alla prova dell’agire concreto una volta sbarcati in Parlamento e la musica, come si è visto anche a Parma, potrebbe cambiare. C’è quindi chi voterà Grillo (che comunque non è candidato né alla Camera nè al Senato) perché crede nel suo programma, oppure (probabilmente la maggioranza) per cercare un rinnovamento della classe politica italiana. Della serie “gli altri ci hanno provato ed hanno fallito, avanti i prossimi…”, nemmeno si trattasse di una sorta di Corrida di dilettanti allo sbaraglio. C’è inoltre da sottolineare come il M5S, proprio per la sua stessa conformazione, sia piuttosto fragile rispetto alle spinte centrifughe, garantite solo dal consenso creato intorno alla figura di Beppe Grillo e sia privo di strutture di controllo di cui sono dotati i partiti tradizionali (che magari non funzionano, ma almeno esistono) garantite anch’esse solamente dal duo Grillo-Casaleggio. Mandare in Parlamento una tale “armata Brancaleone” potrebbe sì svecchiare d’un tratto la classe politica del Paese, ma rischierebbe anche di consegnare alle camere decine e decine di parlamentari mutevoli, capricciosi, sciolti da qualsiasi vincolo di appartenenza, magari pronti persino a vendersi al miglior offerente. Fatte queste considerazioni bisogna ammettere come Grillo costituisca senza dubbio, per le sue contraddizioni e le speranze che incarna, la forza più innovativa e più misteriosa di questa campagna elettorale. Se questa sarà una forza positiva oppure negativa saranno solo gli elettori e la Storia a dirlo. Prima di passare alle Sinistre varrebbe la pena di spendere anche qualche parola sul movimento arancione di Antonio Ingroia ed il suo Rivoluzione Civile. Chi ha fiducia, come il sottoscritto, nella Magistratura come terzo potere dello Stato, chi non pensa che essa sia un “cancro” oppure una forza eversiva, che non viaggi ad orologeria oppure non giudichi per appartenenza politica, non può che avere una certa simpatia per questo neonato partito. Il suo programma, che punta soprattutto sulla legalità, sull’ambiente e sulla “questione morale”, offre spunti di riflessione condivisibili ed affascinanti che vanno ben al di là di quel “Partito dei Giudici” con il quale viene definito dai suoi semplicistici detrattori. Di fronte all’avvento di una seconda tangentopoli, in cui la politica, l’imprenditoria, la finanza e la malavita sembrano avvinghiati in uno scellerato patto di mutuo soccorso, un partito del genere dovrebbe mietere consensi e prepararsi a governare il Paese restituendo credibilità alle Istituzioni e legalità ai cittadini onesti. Più verosimilmente, invece, Antonio Ingroia farà la fine dell’omonimo Di Pietro, nato cavalcando praticamente gli stessi argomenti, e finito a candidare Scilipoti e Razzi in Parlamento. Una forza di vocazione minoritaria, dura e pura, per questo impreparata ai compromessi della politica, che verrà (nella migliore delle ipotesi) “rimorchiata” dai partiti tradizionali che la porteranno a spasso predicando bene e continuando a razzolare malissimo. Tutto dovrà cambiare perché nulla cambi, questa la parola d’ordine del vecchio establishment, questa la parola d’ordine anche del PD e della sua costola SEL. Pur avendo dimostrato, infatti, qualche grano di rinnovamento grazie alle primarie (per il candidato premier, ma soprattutto per i candidabili al Parlamento) il Partito Democratico di Pierluigi Bersani soffre delle stesse debolezze di cui soffrivano Prodi e Veltroni. Un partito lacerato da troppi personalismi, impastoiato come i propri avversari (anche se forse in maniera meno profonda e becera) nelle paludi della commistione fra soldi e politica, indeciso nella scelta davvero convita fra liberismo e politiche sociali, nell’appoggio sincero ai sindacati oppure ai padroni. Più ancora dei propri predecessori, inoltre, Bersani è sembrato sin dall’inizio più impegnato a cercare alleati ed alleanze con il centro, oppure a tendere addirittura le mani per le riforme alla destra, che ad offrire un’alternativa concreta e fattiva al basso impero berlusconiano che ci ha, di fatto, portato al tracollo politico e finanziario. Se il Cavaliere ha governato per tre legislature con numeri bulgari il merito è anche e soprattutto di questa cosiddetta opposizione, pavida, prezzolata oppure (che Lenin ci perdoni!) addirittura complice di tanto malgoverno. Se il PD volesse davvero vincere e convincere a queste elezioni, come probabilmente in un Paese normale avverrebbe semplicemente per un meccanismo di alternanza democratica, avrebbe l’obbligo di offrire un programma serio, gente nuova ed un impegno davvero concreto per estirpare la malapianta che succhia la linfa vitale della società italiana: lotta capillare e sistematica contro la corruzione, l’evasione e la finanza fuori controllo, interventi concreti contro la disoccupazione, tutela del lavoro, della scuola e della sanità. Tutto questo nel programma del PD da qualche parte ci sarà pure, ma è ben difficile che venga davvero messo in pratica da una classe politica che ha dimostrato in tanti anni di pensare prima al proprio interesse particolare piuttosto che al bene del Paese. Per concludere, nel mezzo di questa infuocata (soprattutto nei toni più che nei programmi) campagna elettorale ci si è messo anche il Papa a rimescolare le carte in tavola… Per carità, lungi da noi immischiare il Pontefice negli affari politici italiani o viceversa, ma di certo la notizia delle dimissioni di Benedetto XVI e l’imminente indizione del conclave rischia di rubare la scena ai politici nostrani spostandola oltre Tevere. Per noi romantici affezionati al detto “morto un Papa se ne fa un altro” la decisione di Ratzinger è stata una doccia fredda che ha fatto diventare tutto ad un tratto il ministero petrino un incarico più “terreno” dal quale si possa in effetti uscire come “autonomi pensionati” e non rigidamente distesi in una cassa da morto. Di certo avrà avuto le sue ragioni, l’età avanzata, gli scandali che ne hanno afflitto il pontificato, la stridente differenza tra la sua figura schiva e ghignante rispetto allo splendente ricordo del Papa globetrotter e sornione incarnata invece da Giovanni Paolo II. Di certo per una simile rinuncia c’è voluta una buona dose di coraggio e forza di innovazione, segno di come tali qualità possano essere presenti anche in un papa-teologo apparentemente mite e timido. C’è chi afferma che nel mondo di oggi, capace di viaggiare veloce come mai prima, ci voglia un Pontefice più giovane, dinamico, al passo con i tempi, capace di parlare anche alle nuove generazioni, capace di riformare Santa Romana Chiesa spegnendone i personalismi e rilanciandone le aspirazioni pastorali. Chissà se sarà proprio questa la volontà che verrà espressa dal prossimo conclave, oppure prevarrà come sempre la prudenza e la resistenza. Tutti dicono che ci vorrebbe un nuovo Wojtyła, ma per quale motivo? Forse proprio per mettere in pratica il miracolo migliore del proprio santo predecessore: ridare slancio alla Chiesa, pur non facendola muovere nemmeno di un millimetro. Che Stato e Chiesa viaggino all’unisono almeno su questo argomento?
di Gianluca Stisi (AG.RF 17.02.2013)