di Valter Chiappa
(AG. R.F. 08/01/2017)
(riverflash) Tornare. Può essere un’idea che ci accarezza. Sciogliere i nodi del passato, i grumi che ostacolano il flusso della memoria.
È quello che Louis (Gaspard Ulliel), drammaturgo affermato, decide di fare. Tornare da dove è fuggito 12 anni prima: la famiglia. Ha un pretesto forte per farlo, annunciare la sua prossima morte. In un superbo ed estremo esercizio di controllo vuole ricucire i capitoli irrisolti della trama della sua vita.
Ma già sull’uscio la realtà si presenta nuda. Ad accoglierlo le schermaglie che evolveranno in un ininterrotto battibecco. Perché “È solo la fine del mondo” è fatto di un vociare continuo, di voci stridule che si sovrappongono, di frasi che si susseguono senza una costruzione logica.
Antoine (Vincent Cassel) sfoga la sua aggressività di uomo frustrato, rinfacciando al fratello le scarse attenzioni ricevute. La sorella minore Suzanne (Léa Seydoux) è una ragazza irrisolta, incline all’autodistruzione e all’abuso di spinelli. La madre (Nathalie Baye), cristallizzata nelle sue categorie mentali, non ha gli strumenti per ricomporre quel quadro frantumato. “Non capisco ma ti voglio bene”, battuta che la madre rivolge al figlio, è la sintesi di tutto: l’incapacità a comprendersi o semplicemente a venirsi incontro è la radice di quell’urlare sconnesso. Cui si contrappone il silenzio del protagonista. Perché Louis, durante tutta la sua permanenza tace, osserva tutto con i suoi occhi liquidi. Impotente, anche lui incapace, di ritessere una qualsiasi trama.
Ma la comunicazione impossibile con i familiari si instaura con l’unica persona esterna al nucleo: la cognata Catherine (Marion Cotillard), moglie succube di Antoine alle cui grida risponde con una tentennante balbuzie. Dolan sottolinea continuamente l’incrocio degli occhi di Louis e Catherine. Gli sguardi al posto delle parole, dialogo silente e profondamente empatico, è l’unico in un mare di parole urlate. Sarà Catherine infatti l’unica a intuire il doloroso segreto di Louis.
Xavier Dolan torna sulle tematiche familiari a lui care, da sempre lette in modo conflittuale, dalla prima opera “J’ai tué ma mère” fino a “Mommy”, che ha sancito il riconoscimento universale del giovanissimo regista canadese. C’è sempre una madre, mai un padre, c’è sempre rabbia, c’è sempre incomprensione, sullo sfondo l’omosessualità. Nel testo del drammaturgo francese Jean-Luc Lagarce Dolan trova la sintesi finale del suo discorso sulla famiglia, di cui decreta definitivamente il crollo, così come l’ultimo, innocente simbolo di essa che, nel finale, si schianta al suolo.
Nel trasporre il testo teatrale Dolan usa tutti gli strumenti a sua disposizione: una tecnica filmica sublime, che si esprime attraverso colori saturi e primi piani strettissimi; l’interpretazione dei suoi talentuosi interpreti (sublime ancora una volta Marion Cotillard, voce imprigionata dal balbettio, viso costretto a dire l’ineffabile); flashback che spezzano il rumore e riportano a una dimensione quasi elegiaca. Importante l’utilizzo di una colonna sonora quanto mai eterogenea, dal brano di Camille “Home is where it hurts” (titolo emblematico) al Moby di “Natural Blues”, dai Blink 182 a, addirittura, la hit romena “Dragostea Din Tei”. Alla musica difatti è affidato il compito di accendere gli spazi del sentimento.
Ma al tocco della bacchetta di Dolan che cambia bruscamente il registro, nell’animo dello spettatore il disturbo lascia spazio al dolore: questo è dato al suo sentire. Per Louis tornare a casa, per Dolan riaffrontare i fantasmi familiari, è stato inutile. Nessuna catarsi, nessuna speranza di redenzione, c’è solo sofferenza.
Per Xavier Dolan, ineluttabilmente, “Home is where it hurts”.
Voto: 7.5
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