AG.RF.(redazione).21.02.2018
“riverflash” – La modernizzazione della povertà.
Al di là di una certa soglia, il moltiplicarsi delle merci induce impotenza, genera l’incapacità di coltivare cibo, di cantare, di costruire.
La fatica e il piacere della condizione umana diventano un privilegio snobistico riservato a pochi ricchi.
Al tempo in cui Kennedy varò l’Alleanza per il progresso, c’erano ad Acatzingo, come in quasi tutti i villaggi del Messico, quattro gruppi di musicanti; suonavano in cambio di qualche bicchiere, e servivano gli ottocento abitanti.
Oggi giradischi e radio collegati ad altoparlanti strozzano i talenti locali.
Ogni tanto, per nostalgia, si fa una colletta e in occasione di qualche festa si fa venire dall’Università un complesso di studenti fuori corso a cantare le vecchie canzoni.
Il giorno in cui nel Venezuela fu approvata la legge che sancisce il diritto di ogni cittadino a ottenere quella merce che si chiama ‘alloggio’, i tre quarti de lle famiglie scoprirono che le abitazioni che esse stesse si erano costruite andavano considerate catapecchie.
Inoltre, e qui sta il guaio, era ormai pregiudicata la possibilità di fare da soli: non era più lecito tirar su una casa senza aver prima presentato un progetto disegnato da un architetto laureato.
I materiali di scarto e di recupero che sino allora a Caracas venivano utilizzati come eccellenti materiali da costruzione, crearono a questo punto un problema di eliminazione dei rifiuti solidi.
Oggi l’uomo che si fa il proprio ‘alloggio’ è malvisto come un deviante che si rifiuta di collaborare con il gruppo di pressione locale per l’assegnazione di unità abitative prodotte in serie.
Sono inoltre venuti fuori innumerevoli regolamenti che bollano come illegale o addirittura delittuosa la sua ingegnosità.
E’ un esempio che mostra come i poveri sono i primi a soffrire quando un nuovo tipo di merce interviene a castrare una delle attività tradizionali di sussistenza.
La disoccupazione utile del povero che non ha un impiego è sacrificata all’espansione del mercato del lavoro.
Il farsi la casa come attività intrapresa di propria scelta, al pari di qualunque altra libertà d’impiegare utilmente il tempo lasciato libero dal lavoro, diventa così privilegio esclusivo di qualche deviante, spesso del ricco ozioso. La dipendenza dall’abbondanza castrante, una volta radicata in una cultura, genera la ‘povertà modernizzata’.
Si tratta d’una forma di disvalore che non può non accompagnarsi alla proliferazione delle merci.
Questa disutilità crescente della produzione industriale di massa è sfuggita all’attenzione degli economisti perché non è rilevabile con i loro strumenti di misura, e a quella dei servizi sociali perché non può essere oggetto di ‘ricerca operativa’.
Gli economisti non dispongono di alcun mezzo efficace per comprendere nei loro c alcoli la perdita che subisce l’intera società quando resta priva d’un tipo di soddisfazione che non ha un equivalente commerciale; sicché gli economisti si potrebbero oggi definire come i membri di una confraternita aperta soltanto a coloro che, nello svolgimento del lavoro professionale, danno prova d’una ben addestrata cecità sociale nei riguardi del più importante fenomeno di sostituzione che stia avvenendo nei sistemi contemporanei, d’Oriente come d’Occidente: il declino della capacità personale di agire e di fare, che è il prezzo pagato per ogni sovrappiù di abbondanza di prodotti.
Finché la povertà di tipo moderno ha colpito soprattutto gli indigenti, la sua esistenza e, a maggior ragione, la sua natura, sono state ignorate, persino a livello di conversazione.
Man mano che lo sviluppo o, se si preferisce, la modernizzazione toccava i poveri (cioè coloro che fin lì erano riusciti a sopravvivere nonostante che fossero esclusi dall’economia di mercato) li si costringeva sistematicamente a far dipendere la propria sopravvivenza dall’inserimento in un sistema commerciale che, per lor o, significava sempre e necessariamente ricevere gli scarti del mercato.
Gli indios di Oaxaca, che prima erano sempre stati respinti dalle scuole, ora sono obbligati ad andarci, perché possano ‘guadagnarsi’ un titolo di studio che rappresenta l’esatta misura della loro inferiorità rispetto alla popolazione urbana.
Inoltre, e di nuovo è questo il guaio, senza quel pezzo di carta non possono trovar lavoro neanche nell’edilizia.
La modernizzazione dei ‘bisogni’ non fa che aggiungere nuovi motivi di discriminazione a danno dei poveri.
Ormai però la povertà modernizzata è esperienza comune a tutti, fuorché a coloro che sono tanto ricchi da potersi appartare nel lusso.
Man mano che i diversi campi dell’esistenza vengono uno dopo l’altro assoggettati a merci offerte secondo un piano, pochi di noi riescono a sottrarsi a una ricorrente sensazione di dipendenza impotente.
Il consumatore medio americano è bombardato ogni giorno da un centinaio di annunci pubblicitari, e reagisce a molti di essi, più spesso di quanto non si creda, negativamente.
Persino la clientela facoltosa, a ogni nuovo prodotto che acquista, fa una nuova esperienza di disutilità.
Sospetta di aver comprato una cosa di dubbio valore, che presto forse si rivelerà inutile o addirittura pericolosa, e che richiede una schiera di accessori ancor più costosi.
La clientela facoltosa allora si organizza: di solito comincia col chiedere un controllo sulla qualità, e non di rado riesce a mettere al bando certi prodotti.
Sull’altro versante della società, la popolazione povera si ‘stacca’ dai servizi e dalle ‘tutele’: South Chicago rifiuta l’assistenza sociale, il Kentucky respinge i libri di testo…
Ricchi e poveri non sono molto lontani dal rendersi conto lucidamente che ogni ulteriore sviluppo d’una cultura ad alta intensità di merci porta con sé una nuova forma di ricchezza frustrante.
E chi sta meglio economicamente comincia ad intuire che nei poveri si rispecchia il suo stesso destino, anche se per ora i segni di questa consapevolezza non sono andati al di là d’una sorta di romanticismo.
L’ideologia che fa coincidere il progresso con l’abbondanza non è ristretta ai paesi ricchi.
E’ presente, e degrada le attività non negoziabili, anche in zone dove fino a tempi recenti la maggioranza dei bisogni veniva ancora soddisfatta con un modo di vita basato sulla sussistenza.
I cinesi, per esempio, coerentemente con la loro tradizione, parevano intenzionati e capaci di definire in maniera diversa il progresso tecnico, di optare per la bicicletta anziché per il jet.
Quando promuovevano l’autodeterminazione locale, sembravano considerarla una meta degna di gente inventiva, più che un mezzo per la difesa nazionale.
Ma nel 1977 la loro propaganda inneggiava alla capacità industriale cinese di fornire più assistenza medica, più istruzione, più case, più benessere generale, a un costo più basso.
Non si attribuisce ormai che una funzione puramente tattica, e transitoria, alle erbe che il ‘medico scalzo’ porta nel sacco e ai metodi di produzione ad alta intensità di lavoro.
Come in altre parti del mondo, anche qui la produzione di beni eteronoma, cioè eterodiretta, programmata per categorie di consumatori anonimi, suscita aspettative irrealistiche e alla lunga frustranti.
Inevitabilmente, inoltre, questo processo corrompe la fiducia della gente nelle capacità autonome proprie e del prossimo, capacità sempre impreviste e ogni volta sorprendenti.
La Cina, da questo punto di vista, non è che l’ultimo esempio di modernizzazione all’occidentale, ottenuta cioè con la soggezione intensiva al mercato: un fenomeno che devasta le società tradizionali come non ci è mai riuscito nessun ‘culto del cargo’, neanche nelle sue forme estreme più irrazionali.
La metamorfosi dei bisogni.
Nelle società tradizionali come in quelle moderne, in un tempo assai breve è avvenuto un mutamento importante: sono radicalmente cambiati i mezzi intesi a soddisfar e i bisogni.
Il motore ha fiaccato il muscolo, la scuola ha spento la curiosità individuale fiduciosa nelle proprie forze.
Di conseguenza, tanto i bisogni quanto i desideri hanno assunto caratteristiche senza precedenti nella storia.
Per la prima volta i bisogni coincidono quasi esclusivamente con delle merci.
Finché la maggioranza della gente non disponeva che delle gambe per andare dove voleva, protestava se veniva ostacolata la sua “libertà” di spostarsi.
Ora che dipende invece dai mezzi di trasporto, rivendica non la libertà ma il “diritto” di divorare chilometri a bordo d’un veicolo.
E man mano che un sempre maggior numero di veicoli assicura questo ‘diritto’ a un sempre maggior numero di persone, la libertà di camminare si svaluta, eclissata dall’esistenza di tale diritto.
I desideri della stragrande maggioranza della gente si uniformano, e non si riesce neanche più ad immaginare che sia possibile liberarsi dalla condizione universale di passeggeri, cioè di godere la libertà dell’uomo moderno, in un mondo moderno, di muoversi autonomamente.
Questa situazione, che è ormai di una rigida interdipendenza tra bisogni e mercato, viene legittimata appellandosi al giudizio di un’élite di specialisti il cui sapere, per sua stessa natura, non è di dominio comune.
Gli economisti tanto di destra quanto di sinistra garantiscono al pubblico che un aumento dei posti di lavoro dipende da una maggior disponibilità di energia; gli educatori lo persuadono che la legge, l’ordine e la produttività dipendono da un maggior grado d’istruzione; i ginecologi assicurano che la qualità della vita infantile dipende dalla loro partecipazione ai parti.
Pertanto, finché non verrà tolta l’immunità a queste élites che legittimano il binomio merce-soddisfazione, non sarà possibile contestare efficacemente il quasi universale affermarsi dell’intensità di mercato nelle economie del mondo.
Un buon esempio, a illustrazione di questo, me lo ha dato una donna raccontandomi la nascita del suo terzo figlio.
Istruita dall’esperienza dei primi due parti, affrontava il terzo con tutta serenità: sapeva ‘che cosa succede’ e conosceva le proprie reazioni.
Entrata in ospedale, sentendo arrivare il bambino chiamò l’infermiera.
Ma questa, anziché aiutarla, afferrò un panno sterilizzato e si mise a premere la testa del bambino cercando di farlo ‘rientrare’, e intanto ordinava alla madre di smetterla di spingere “perché il dottor Levy non è ancora arrivato”.
Ciò che occorre in questo momento è la decisione pubblica, l’azione politica, non l’affidamento agli specialisti.
Le società moderne, ricche o povere che siano, possono scegliere tra due strade opposte.
Possono produrre un nuovo campionario di merci (magari più sicure, meno dispendiose, più facilmente ripartibili) e intensificare così ulteriormente la loro dipendenza dai beni di consumo.
Oppure possono affrontare in un modo completamente nuovo il rapporto tra bisogni e soddisfazioni.
In altre parole possono o conservare le loro economie ad alta intensità di mercato, modificando soltanto le caratteristiche tecniche del prodotto, o ridurre la loro dipendenza dalle merci.
La seconda soluzione comporta l’avventura di immaginare e costruire strutture nuove in cui gli individui e le comunità possano elaborare un diverso tipo di attrezzatura moderna; scopo di questa nuova organizzazione dovrebbe essere quello di permettere alla gente di modellare e soddisfare direttamente e personalmente una crescente porzione dei propri bisogni.
La prima soluzione significherebbe continuare a identificare il progresso tecnico con la moltiplicazione delle merci.
Gli alti burocrati di convinzioni egualitarie ed i tecnocrati dell’assistenza sarebbero concordi nell’invitare all’austerità: raccomanderebbero di passare dai beni di cui non tutti ovviamente possono fruire, per esempio gli aerei a reazione, alle cosiddette attrezzature ‘sociali’ come gli autobus; di distribuire in maniera più equa le decrescenti ore di occupazione disponibili e di limitare severamente la settimana lavorativa a una ventina di ore di presenza sul posto di lavoro; di destinare la nuova risorsa del tempo lasciato libero dall’impiego a corsi obbligatori di riqualificazione o ad un servizio volontario sui modelli di Mao, Castro o Kennedy.
Questa nuova fase della società industriale, per quanto socialista, efficiente e razionale, darebbe luogo a una nuova civiltà nella quale la soddisfazione dei desideri sarebbe declassata all’appagamento ripetitivo di bisogni ascritti, mediante prodotti standardizzati.
Nel caso migliore, tale tipo di società produrrebbe minori quantitativi di beni e di servizi, li distribuirebbe più equamente e susciterebbe meno invidie.
La partecipazione simbolica del popolo alle decisioni da prendere potrebbe passare dal savio acquirente del mercato al compunto ascoltatore delle assemblee politiche.
L’impatto della produzione sull’ambiente potrebbe venire ammorbidito.
Con ritmo assai più rapido dei beni di consumo crescerebbero sicuramente i servizi, specie le varie forme di controllo sociale.
Già oggi si spendono somme enormi nell’industria dell’oracolo per permettere ai profeti governativi di sputare scenari ‘alternativi’ diretti a puntellare la scelta di cui stiamo parlando.
Particolare interessante, molti di costoro sono già arrivati a concludere che il costo dei controlli sociali necessari per imporre l’austerità in una società ecologicamente accettabile, ma pur sempre imperniata sulla produzione standardizzata, sarebbe insostenibile.
La seconda delle due scelte possibili metterebbe fine al dominio assoluto del prodotto standard e promuoverebbe un’etica austera diretta a favorire un’attività soddisfacente da parte dei più.
Se nella prima alternativa austerità significherebbe sottomissione di ognuno agli “ukase” (dal russo ukaz, che significa ‘editto’, ‘decreto’) dei manager nell’interesse d’una maggiore produttività istituzionale, nella seconda l’austerità sarebbe quella virtù sociale per cui la gente riconosce e fissa dei limiti al potere che ognuno può rivendicare sugli strumenti, tanto per la propria soddisfazione quanto per servire gli altri.
Questa austerità conviviale sollecita la società a proteggere il valore d’uso personale contro l’arricchimento mutilante.
Protette dalla perniciosa opulenza, sorgerebbero molteplici culture differenziate, tutte moderne e tutte propizie ad un impiego diffuso degli strumenti moderni.
L’austerità conviviale delimita infatti in tal modo l’utilizzazione degli strumenti, che la proprietà di questi perderebbe gran parte del suo potere attuale.
Che le biciclette appartengano qui alla comunità e lì a chi le adopera non muta la natura essenzialmente conviviale della bicicletta come strumento.
I beni di questo tipo continuerebbero a essere prodotti, in gran parte, con metodi industriali, ma sarebbe diverso il modo di considerarli e di apprezzarli.
Oggi le merci sono principalmente degli articoli che rispondono direttamente a dei bisogni creati da coloro che le hanno progettate.
Nella seconda soluzione, invece, il loro prezzo deriverebbe dal fatto di essere o materiali grezzi o strumenti che permettono alla gente di generare valori d’uso assicurando la sussistenza delle rispettive comunità.
Ovviamente questa scelta comporta una rivoluzione copernicana nella nostra concezione dei valori.
Oggi noi mettiamo al centro del nostro sistema economico i beni di consumo e i servizi professionali, e gli specialisti pongono in relazione i nostri bisogni esclusivamente con tale centro.
Viceversa l’inversione sociale che qui si contempla porrebbe al centro i valori d’uso creati e personalmente promossi dalla gente.
E’ vero che gli uomini sono arrivati a non credersi più capaci di modellare i propri desideri.
La discriminazione che in tutto il mondo colpisce l’autodidatta ha infirmato la fiducia di molti nella capacità di determinare i propri bisogni e i propri fini.
Ma la stessa discriminazione ha anche suscitato e rafforzato una molteplicità di minoranze insofferenti di questa insidiosa spoliazione.
2. Servizi professionali menomanti.
Queste minoranze già si rendono conto che, come tutte le forme di vita culturale autoctona, esse sono minacciate dai megastrumenti che espropriano sistematicamente le condizioni ambientali propizie all’autonomia individuale e di gruppo.
Perciò, senza far chiasso, decidono di difendere l’utilità dei loro corpi, delle loro memorie e dei loro talenti.
Poiché il rapido moltiplicarsi dei bisogni attribuiti genera forme di dipendenza sempre nuove e sempre nuove categorie di povertà modernizzata, le odierne società industriali stanno diventando dei conglomerati interdipendenti di clientele, degli insiemi di maggioranze contrassegnate da stigmate burocratiche.
In questa massa di cittadini paralizzati dai mezzi di trasporto, resi insonni da gli orari, avvelenati dalla terapia ormonica, ammutoliti dagli altoparlanti, intossicati dagli alimenti, alcuni costituiscono minoranze organizzate e attive.
Per ora questi gruppi hanno appena cominciato a formarsi e ad unirsi per esprimere pubblicamente il loro dissenso; ma soggettivamente sono pronti a chiudere un’ epoca.
Solo che un’epoca non è veramente liquidata se non quando ha avuto un nome.
Io propongo di chiamare quest’ultimo quarto di secolo: l’Era delle professioni menomanti.
Scelgo questa denominazione perché è impegnativa per chi la usa.
Mette infatti in luce le funzioni antisociali svolte dai fornitori meno contesta ti: gli educatori, i medici, gli specialisti di assistenza sociale, gli scienziati.
Nello stesso tempo mette sotto accusa la passività dei cittadini che si sono sottomessi come clienti a questa poliedrica schiavitù.
Parlare del potere delle professioni menomanti significa costringere le loro vittime (lo studente a vita, il ‘caso’ ginecologico, il consumatore) a riconoscere la propria connivenza con i rispettivi gestori.
Definendo gli anni Sessanta l’apogeo del ‘solutore di problemi’, si evidenzia nello stesso tempo la tronfia presunzione delle nostre élites universitarie e l’avida dabbenaggine delle loro vittime.
Ma non basta smascherare e denunciare i fabbricanti dell’immaginazione sociale e dei valori culturali: definendo l’ultimo venticinquennio l’Era della dominazione professionale, si vuol fare qualcosa di più, si vuole proporre una strategia.
E’ necessario infatti andare al di là di una diversa distribuzione, fatta dagli esperti, di merci dispendiose, irrazionali e paralizzanti, al di là del marchio di garanzia del professionismo radicale, al di là della saggezza convenzionale degli odierni ‘uomini in gamba’.
Questa strategia esige né più né meno che lo smascheramento dell'”ethos” professionale.
La credibilità dell’esperto, sia scienziato, terapista o manager, è il tallone d’Achille del sistema industriale.
E quindi soltanto quelle iniziative civiche e quelle tecnologie radicali che si oppongano direttamente all’insinuante dominio delle professioni menomanti aprono la via al libero esercizio di competenze non gerarchiche, basate sulla comunità.
La fine dell’attuale “ethos” professionale è condizione necessaria perché emerga un nuovo rapporto tra i bisogni, gli strumenti contemporanei e la soddisfazione deg li individui.
E il primo passo in questa direzione è un atteggiamento scettico e privo di deferenza, da parte del cittadino, nei confronti dello specialista.
La ricostruzione della società ha inizio quando i cittadini cominciano a dubitare.
Quando affermo che l’analisi del potere professionale è la chiave per ricostruire la società, mi viene solitamente obiettato che è uno sbaglio pericoloso individuare in tale fenomeno il nodo della guarigione dal sistema industriale.
L’organizzazione del sistema educativo, di quello sanitario, della pianificazione, non rispecchia forse la distribuzione del potere e del privilegio di un’élite capitalistica? Non è da irresponsabili minare la fiducia dell’uomo della strada nel suo insegnante, nel suo medico, nel suo economista, tutta gente dotata di preparazione scientifica, proprio nel momento in cui i poveri hanno bisogno di tali protettori preparati per ottenere accesso alla scuola, alla clinica, all’istituto specializzato? L’atto d’accusa contro il sistema industriale non dovrebbe piuttosto essere rivolto contro i dividendi degli azionisti delle ditte farmaceutiche o contro le tangenti dei sensali del potere appartenenti alle nuove élites? Perché guastare i rapporti di mutua dipendenza tra clienti e fornitori professionali, specie considerando che sempre più spesso gli uni e gli altri fanno parte della medesima classe sociale? Non è pura perversità denigrare proprio coloro che sudando hanno acquisito conoscenze che li rendono capaci di riconoscere i nostri bisogni di benessere e di soddisfarli? E d’altra parte non andrebbe fatta una distinzione per i leader professionali del radicalismo socialista, che sono i più adatti a svolgere il compito ormai incombente di definire e soddisfare i bisogni ‘reali’ in una società egualitaria? Anche se espressi in forma interrogativa, sono questi gli argomenti che il più delle volte si adducono per scoraggiare e screditare un’analisi pubblica degli effetti menomanti prodotti dai sistemi industriali di assistenza che s’imperniano sui servizi.
Tali effetti sono sostanzialmente identici e palesemente inevitabili, qualunque sia la bandiera politica che li copre.
Essi annientano l’autonomia degli uomini costringendoli, mediante modificazioni delle leggi, dell’ambiente e delle strutture sociali, a diventare consumatori di assistenza.
Queste domande retoriche esprimono solo una frenetica difesa dei propri privilegi da parte delle ‘élites del sapere’, le quali perderebbero forse qualche introito ma acquisterebbero sicuramente maggior prestigio e potere se, in una nuova forma decentrata di economia ad alta intensità di mercato, si rendesse meno ineguale l a dipendenza dalle loro prestazioni.
Un’altra obiezione che viene mossa alla critica del potere professionale si fonda su un grosso equivoco.
Essa parte dall’assunto che il nodo principale da analizzare sia la complessa macchina della difesa, che costituirebbe il centro di ogni società burocratico-industriale.
Il ragionamento che partendo da questa base viene sviluppato identifica nelle forze di sicurezza il motore che starebbe dietro all’odierna universale irreggimentazione dei popoli in un esercito di sudditi del mercato.
I principali creatori di bisogni sarebbero quelle burocrazie armate che esistono da quando, durante il regno di Luigi Tredicesimo, Richelieu istituì la prima polizia di mestiere: cioè quegli organismi professionali che oggi si occupano degli armamenti, dello spionaggio e della propaganda.
Da Hiroshima in poi, questi ‘servizi’ sembrano avere un peso determinante nella ricerca, nella progettazione e nell’occupazione.
Essi poggiano su fondamenta civili, quali la scolarizzazione per inculcare la disciplina, l’educazione al consumo per indurre il gusto dello spreco, l’assuefazione alle velocità violente, l’ingegneria biologica per imparare a sopravvivere in un rifugio di dimensioni planetarie, la dipendenza uniforme da reazioni distribuite da benevoli furieri.
Questa corrente di pensiero vede nella sicurezza nazionale il generatore dei modelli di produzione della società, e considera gran parte dell’economia civile un derivato o un presupposto di quella militare.
Se valesse un ragionamento costruito su questi concetti, quale società potrebbe fa re a meno del nucleare, per quanto tossica, opprimente e controproducente possa essere un’ulteriore sovrabbondanza di energia? Come potrebbe uno Stato assillato dalla difesa tollerare la formazione di gruppi di cittadini malcontenti che boicottino i circuiti di consumo e rivendichino la libertà di sussistere sulla sola base dei valori d’uso, in un’atmosfera di austerità soddisfacente e gioiosa? Una società militarizzata non si affretterebbe forse a prendere provvedimenti contro tali disertori del bisogno, a bollarli come traditori e ad esporli, se possibile, non soltanto al disprezzo ma al ridicolo? Una società impostata sulla difesa non soffocherebbe forse simili esempi che porterebbero a una modernità non violenta, proprio nel momento in cui si richiede una politica alla Mao, di decentramento della produzione delle merci e un consumo più razionale, più equo, più vigilato dai professionisti? Il ragionamento in questione attribuisce indebitamente all’apparato militare l’origine della violenza nello Stato industriale.
Che l’aggressività e la distruttività delle società industriali siano da imputare alle esigenze militari è un’idea ingannevole che va denunciata.
Se davvero i militari si fossero in qualche modo impadroniti del sistema industriale, se avessero sottratto al controllo dei civili le varie sfere di iniziativa e d’azione sociale, lo stadio attuale della politica perseguita dai militari avrebbe allora toccato un punto da cui non si torna più indietro, almeno nel senso che non resterebbe alcuna possibilità di riforme civili.
Così del resto ragionano i capi militari brasiliani più intelligenti, i quali vedono nelle forze armate l’unica legittima salvaguardia di un pacifico sviluppo industriale per tutto il resto del secolo.
Ma non è affatto così.
Lo stato industriale moderno non è un prodotto dell’esercito.
Piuttosto l’esercito è uno dei sintomi del suo orientamento globale e costante.
Non c’è dubbio che l’odierno tipo di organizzazione industriale può esser fatto risalire ad antecedenti militari dell’epoca napoleonica.
Non c’è dubbio che l’istruzione obbligatoria per i figli dei contadini avviata negli anni Cinquanta del secolo scorso, l’assistenza sanitaria per il proletariato industriale che inizia negli anni Cinquanta dello stesso secolo, lo sviluppo delle reti di comunicazione che si ha dal 1860 in poi, non diversamente dalla maggior parte delle forme di standardizzazione industriale, sono tutte strategie originariamente introdotte nelle società moderne per esigenze militari e che solo in u n secondo tempo sono state considerate forme rispettabili di pacifico progresso civile.
Ma il fatto che i “sistemi” sanitario, scolastico e assistenziale abbiano avuto bisogno di una motivazione militare per diventare legge non significa che non fossero perfettamente coerenti con la spinta fondamentale dello sviluppo industria le che, in realtà, non è mai stato non violento, pacifico o rispettoso della persona umana.
Oggi è più facile rendersene conto.
Prima di tutto perché, da quando c’è il Polaris (missile atomico imbarcato su sottomarini nucleari e lanciabile in immersione), non è più possibile distinguere tra eserciti da tempo di pace ed eserciti da tempo di guerra; e poi perché da quando si è dichiarata guerra alla povertà anche la pace percorre il sentiero di guerra.
Oggi le società industriali sono costantemente e totalmente mobilitate; sono organizzate in funzione di perenni stati di emergenza; non c’è uno dei loro settori che non sia intersecato da molteplici strategie; i campi di battaglia della salute, dell’istruzione, dell’assistenza e dell’uguaglianza compensatoria sono cosparsi di vittime e coperti di macerie; l’esercizio delle libertà civiche viene frequentemente sospeso per condurre campagne contro i mali sempre nuovi che si continuano a scoprire; ogni anno si individua un nuovo gruppo di popolazione di frontiera che occorre proteggere o guarire da qualche nuova malattia, da qualche forma d’ignoranza prima sconosciuta.
I bisogni fondamentali che vengono modellati e indotti da tutti gli organismi professionali sono bisogni di difesa da mali.
I professori e i sociologi che oggi cercano di imputare ai militari la distruttività delle società sovraproduttrici di merci tentano, in maniera molto goffa, di arrestare l’erosione della propria legittimità.
Sostenendo che è colpa dei militari se il sistema industriale diventa frustrante e rovinoso, essi distraggono l’attenzione dal carattere profondamente distruttivo proprio della società ad alta intensità di mercato, che sospinge i suoi cittadini alle guerre attuali.
Tanto a coloro che cercano di difendere la propria autonomia di professionisti d alla maturità dei cittadini, quanto a coloro che vorrebbero far passare il professionista come una vittima dello Stato militarizzato, si deve rispondere con una scelta: quella della direzione nella quale i cittadini liberi vogliono avviarsi per superare la crisi mondiale.
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