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DISOCCUPAZIONE CREATIVA: IL SAGGIO DI IVAN ILLICH . SECONDA PUNTATA

ivan_illich

AG.RF.(redazione).19.02.2018

“riverflash” – Introduzione.

Cinquant’anni fa, quasi tutte le parole che uno udiva erano rivolte personalmente a lui come individuo o a qualcun altro che gli stava vicino. Solo in certe circostanze lo toccavano in quanto membro indifferenziato di una massa, a scuola o in chiesa, a un comizio o al circo. Le parole erano per lo più come lettere scritte a mano e sigillate, non come il ciarpame che inquina ora le nostre poste. Oggi le parole rivolte all’attenzione di una sola persona sono divenute rare. Produzioni standardizzate di immagini, idee, sensazioni e opinioni, confezionate e distribuite attraverso i “media”, aggrediscono la nostra sensibilità con ritmo incessante. Due fatti sono ormai evidenti:

1) ciò che sta avvenendo nel linguaggio ricalca il modello di una sempre più ampia serie di rapporti bisogno/soddisfazione;

2) questa sostituzione di merce industriale manipolante ai mezzi conviviali sta avendo luogo su scala veramente universale, e viene inesorabilmente assimilando tra loro l’insegnante newyorkese e il membro della comune cinese, lo scolaretto bantù e il sergente brasiliano.

In questo saggio, che è un poscritto a “La convivialità”, mi propongo tre cose:

1) descrivere il carattere che assume una società ad alta intensità di merci e mercato, nella quale l’abbondanza stessa delle merci paralizza la creazione autonoma di valori d’uso;

2) evidenziare il ruolo occulto che le professioni svolgono in tale società col modellarne i bisogni;

3) smascherare certe illusioni e proporre alcun e strategie per spezzare quel potere professionale che perpetua la dipendenza da l mercato.

1. Gli effetti menomanti della supremazia del mercato.

Il vocabolo “crisi” indica oggi il momento in cui medici, diplomatici, banchieri e tecnici sociali di vario genere prendono il sopravvento e vengono sospese le libertà.

Come i malati, i paesi diventano casi critici. “Crisi”, la parola greca che in tutte le lingue moderne ha voluto dire ‘scelta’ o ‘punto di svolta’, ora sta a significare: Guidatore, dacci dentro! Evoca cioè una minaccia sinistra, ma contenibile mediante un sovrappiù di denaro, di manodopera e di tecnica gestionale.

Le cure intensive per i moribondi, la tutela burocratica per le vittime della discriminazione, la fissazione nucleare per i divoratori di energia sono, a questo riguardo, risposte tipiche.

Così intesa, la crisi torna sempre a vantaggio degli amministratori e dei commissari, e specialmente di quei recuperatori che si mantengono con i sottoprodotti della crescita di ieri: gli educatori che campano sull’alienazione della società, i medici che prosperano grazie ai tipi di lavoro e di tempo libero che hanno distrutto la salute, i politici che ingrassano sulla distribuzione di un’assistenza finanziata in primo luogo dagli stessi assistiti.

La crisi intesa come necessità di accelerare non solo mette più potenza a disposizione del conducente, e fa stringere ancora di più la cintura di sicurezza dei passeggeri; ma giustifica anche la rapina dello spazio, del tempo e delle risorse, a beneficio delle ruote motorizzate e a detrimento delle persone che vorrebbero servirsi delle proprie gambe.

Ma ‘crisi’ non ha necessariamente questo significato.

Non comporta necessariamente una corsa precipitosa verso l'”escalation” del controllo.

Può invece indicare l’attimo della scelta, quel momento meraviglioso in cui la gente all’improvviso si rende conto delle gabbie nelle quali si è rinchiusa e della possibilità di vivere in maniera diversa.

Ed è questa la crisi, nel senso appunto di scelta, di fronte alla quale si trova oggi il mondo intero.

Una scelta per tutto il mondo.

In pochi decenni il mondo si è amalgamato.

Le reazioni degli uomini agli eventi quotidiani si sono standardizzate.

Le lingue e le divinità possono ancora apparire differenti, ma ogni giorno altra g ente si aggrega a quell’enorme maggioranza che marcia al ritmo della medesima megamacchina.

Il gesto del braccio verso l’interruttore accanto alla porta ha soppiantato le decine di modi in cui si accendevano un tempo fuochi, candele e lanterne.

In dieci anni il numero degli utenti di interruttori si è triplicato; sciacquone e carta igienica sono diventati condizioni essenziali per poter andare di corpo.

Per un numero sempre maggiore di persone l’illuminazione non fornita da reti ad alto voltaggio e l’igiene senza carta velina significano povertà.

Aumentano le aspettative, mentre declinano rapidamente la fiducia speranzosa nel le proprie capacità e l’interesse per gli altri.

Ora striduli ora soporiferi, i “media” penetrano a forza nella comune, nel villaggio, nell’azienda, nella scuola.

I suoni prodotti dagli autori e dagli annunciatori di testi programmati stravolgono di giorno in giorno le parole della lingua viva facendone tanti blocchi di frasario per messaggi prefabbricati.

Oggi solo chi è tagliato fuori dal mondo oppure l’anticonformista ricco e ben protetto può far giocare i propri bambini in un ambiente dov’essi sentano parlare persone anziché divi, annunciatori o istruttori.

In ogni parte del mondo si vede dilagare quella disciplinata acquiescenza che caratterizza lo spettatore, il paziente e il cliente.

Aumenta rapidamente la standardizzazione del comportamento umano.

E’ dunque chiaro che non c’è quasi alcuna comunità al mondo cui non si ponga esattamente la medesima scelta cruciale: o continuare ad essere mere cifre nella folla condizionata che è sospinta verso una sempre maggior dipendenza (ed essere così costretti a feroci lotte per strappare la propria razione di droga), o trovare quel coraggio che è l’unica possibilità di salvezza in una situazione di panico: il coraggio di restare fermi e di guardarsi attorno alla ricerca di una via di scampo di versa da quella su cui tutti si precipitano perché c’è scritto ‘uscita’.

Molti però, quando gli si dice che tanto i boliviani quanto i canadesi o gli ungheresi si trovano tutti dinanzi alla stessa scelta di fondo, non solo si infastidiscono, ma si indignano.

L’idea appare loro non soltanto ridicola, ma insultante.

Non riescono a scorgere l’identica degradazione, di forma nuova e acuta, che sta sotto la fame dell’indio dell’Altipiano, la nevrosi dell’operaio di Amsterdam e la cinica corruzione del burocrate di Varsavia.

Verso una civiltà della merce.

In tutte le società lo sviluppo ha avuto il medesimo effetto: ognuno si è trovato irretito in una nuova trama di dipendenza nei confronti di prodotti sfornati dal medesimo tipo di macchine: fabbriche, cliniche, studi televisivi, istituti di ricerca.

Per appagare questa dipendenza bisogna continuare a produrre le stesse cose in quantità maggiori: beni standardizzati, concepiti e realizzati ad uso di un futuro consumatore già addestrato dall’agente del produttore ad aver bisogno di ciò che gli viene offerto.

Questi prodotti, siano essi beni tangibili o servizi intangibili, costituiscono la produzione industriale.

Il valore monetario che si attribuisce loro in quanto merci è determinato, in proporzioni variabili, dallo Stato e dal mercato.

Culture differenti diventano così scialbi residui di stili d’azione tradizionali, relitti sbiaditi in un unico deserto di dimensioni planetarie, una terra arida devastata dal macchinario che serve a produrre e consumare.

Sulle rive della Senna come su quelle del Niger, le donne hanno disimparato ad allattare, perché ora quella sostanza bianca la si compra in drogheria. (In Francia, grazie ai maggiori stanziamenti per la tutela del consumatore, è meno velenosa che nel Mali.) Certo, un maggior numero di bambini beve oggi latte di mucca; ma tanto nei paesi ricchi quanto in quelli poveri il seno materno si inaridisce.

Il consumatore dipendente nasce allorquando il neonato piange perché vuole il biberon; quando l’organismo è addestrato a reclamare il latte del droghiere e a distogliersi dal seno, che così non svolge più la propria funzione.

L’attività umana autonoma e creativa, indispensabile a far fiorire l’universo umano, si atrofizza.

I tetti di assicelle e di stoppie, di tegole e di ardesia, vengono soppiantati d al calcestruzzo per i pochi, dalla plastica ondulata per i più.

Né le giungle e le paludi né le prevenzioni ideologiche hanno impedito che i poveri e i socialisti si lanciassero a capofitto nelle autostrade dei ricchi, le quali portano al mondo in cui gli economisti prendono il posto dei preti.

La zecca annulla tutti i tesori e gli idoli locali.

La moneta svaluta quello che non può misurare.

La crisi, dunque, è la stessa per tutti: si tratta di scegliere tra una maggiore o una minore dipendenza dalle merci industriali. “Maggiore” vorrà dire la distruzione rapida e totale di culture generatrici di attività di sussistenza soddisfacenti. “Minore” vorrà dire una variegata fioritura di valori d’uso entro culture modern e intensamente attive.

Per i ricchi come per i poveri la scelta è sostanzialmente la stessa, anche se è difficile da immaginare per chi è già abituato a vivere nel supermercato, una struttura che solo il nome differenzia da una clinica per infermi di mente.

L’attuale società industriale organizza la vita in funzione delle merci.

Le nostre società ad alta intensità di mercato misurano il progresso materiale dall’aumento di volume e di varietà delle merci prodotte.

E sull’esempio di questo settore, noi misuriamo il progresso sociale dal modo in cui è distribuito l’accesso a tali merci.

La scienza economica è diventata un’attività propagandistica volta a favorire la supremazia delle grandi industrie produttrici di beni di consumo.

Il socialismo è stato svilito a lotta contro la disparità nella distribuzione, e l’economia del benessere ha identificato il bene pubblico con l’abbondanza (l’abbondanza umiliante di cui gode il povero negli ospedali, nelle prigioni e nei manicomi degli Stati Uniti).

Indifferente a ogni scambio che non sia contrassegnato da un prezzo monetario, l a società industriale ha creato un paesaggio urbano inadatto a persone che non div orino ogni giorno in metalli e carburanti l’equivalente del proprio peso, un mondo nel quale la costante necessità di difendersi dalle conseguenze indesiderate di un numero maggiore di cose e di controlli ha portato alla luce nuovi filoni di discriminazione, di impotenza e di frustrazione.

Il movimento ecologico, influenzato dal sistema, sinora non ha fatto che rafforzare questa tendenza: ha infatti preso a bersaglio i difetti della tecnologia industriale e, nei casi migliori, lo sfruttamento privato della produzione industriale.

Ha contestato il depauperamento delle risorse naturali, i danni dell’inquinamento e i trasferimenti netti di potere.

Ma anche quando si assegni un prezzo alla degradazione dell’ambiente e alle perdite causate dalla nocività o si calcoli il costo della polarizzazione, non si è ancora detto in modo chiaro che la divisione del lavoro, la moltiplicazione delle merci e la dipendenza da esse hanno forzosamente sostituito con confezioni standardizzate quasi tutte le cose che la gente un tempo faceva da sé o fabbricava con le proprie mani.

Ormai da due decenni muore ogni anno una cinquantina di lingue; una metà di quelle che ancora si parlavano nel 1950 sopravvive soltanto come argomento di tesi di laurea.

E le lingue che ancora restano per testimoniare l’incomparabile varietà dei modi d i vedere il mondo, di servirsene e di goderne, paiono oggi sempre più simili.

La coscienza è ovunque colonizzata da etichette importate.

Eppure anche quelli che si preoccupano per la varietà culturale e genetica che va perduta o per la moltiplicazione degli isotopi a lungo effetto, non badano al depauperamento irreversibile delle capacità, delle storie e dei gusti.

E questa progressiva sostituzione dei beni e servizi industriali ai valori utili ma non negoziabili è stata l’obiettivo comune di gruppi e regimi politici per tutto il resto violentemente antagonistici.

In tal modo, zone della nostra vita sempre più vaste subiscono trasformazioni tali che la vita stessa finisce per dipendere quasi esclusivamente dal consumo di merci vendute sul mercato mondiale.

Gli Stati Uniti corrompono i propri agricoltori per fornire grano a un regime che gioca sempre più la propria legittimità sul tavolo degli approvvigionamenti di cereali.

Naturalmente i due regimi destinano le proprie risorse seguendo metodi differenti: basandosi gli uni sulla saggezza del meccanismo dei prezzi, gli altri su quel la dei pianificatori.

Ma il contrasto politico che oppone i fautori dei due diversi metodi di ripartizione maschera appena lo spietato disprezzo, comune agli uni e agli altri, per la libertà e la dignità della persona.

La politica nel campo energetico è un buon esempio della sostanziale identità di vedute fra i sostenitori del sistema industriale, si presentino essi con l’etichetta di socialisti o di capitalisti.

A parte forse la Cambogia, sulla quale non ho notizie, non esiste gruppo di governo o d’opposizione socialista che riesca a immaginare un auspicabile futuro basato su un consumo d’energia pro capite inferiore a quello oggi prevalente in Europa.

Tutti i partiti politici esistenti ritengono necessaria una produzione ad alta intensità d’energia, magari con disciplina cinese, senza capire che la società da essa derivante negherà ancora di più alla gente il libero uso dei propri arti.

Qui le auto private, là gli autobus pubblici, scacceranno le biciclette dalla strada.

Tutti i governi vogliono una forza produttiva ad alta intensità di occupazione, ma sono restii a riconoscere che gli impieghi possono anche distruggere il valore d’uso del tempo libero.

Tutti insistono perché si arrivi a una definizione professionale, più completa e oggettiva, dei bisogni della gente, ma sono insensibili all’espropriazione della vita che ne consegue.

Sul finire del Medioevo la straordinaria semplicità della teoria eliocentrica veni va usata come argomento per screditare la nuova astronomia. La sua eleganza era considerata ingenuità.

Nella nostra epoca non sono certo rare le teorie imperniate sul valore d’uso e capaci di analizzare i costi sociali generati dalle economie ortodosse.

Le propongono dozzine di “outsiders”, che le identificano spesso con la tecnologia radicale, con l’ecologia, con i modi di vita comunitari, con la piccola dimensione, con la bellezza.

Come pretesto per non prenderle in considerazione, si oppone ad esse, ingigantendolo, il frequente insuccesso degli esperimenti tentati di persona dai loro fautori.

Come l’inquisitore della leggenda si rifiutava di guardare nel telescopio di Galileo, così molti economisti odierni si rifiutano di prendere in considerazione un’ analisi che potrebbe spostare il centro convenzionale del loro sistema economico.

I nuovi sistemi analitici ci obbligherebbero a riconoscere l’ovvio: che in una cultura la quale voglia offrire un programma di vita soddisfacente alla maggioranza dei propri membri, la generazione di valori d’uso non negoziabili deve necessariamente occupare un posto centrale.

Le culture sono programmi per attività, non per aziende.

La società industriale distrugge questo centro inquinandolo col prodotto programmato dalle imprese, pubbliche o private, e degradando ciò che la gente può fare da sé o fabbricare per proprio conto.

La conseguenza è che le società si sono trasformate in giganteschi giochi a somma zero, in sistemi di distribuzione monolitici nei quali il guadagno dell’uno diventa perdita o peso per l’altro, mentre la vera soddisfazione è negata a entrambi.

Strada facendo sono state distrutte innumerevoli serie di infrastrutture all’interno delle quali la gente s’arrabattava, giocava, mangiava, stringeva amicizie, faceva l’amore.

Sono bastati un paio di decenni di cosiddetto sviluppo per smantellare modelli tradizionali di cultura dalla Manciuria al Montenegro.

Prima, quei modelli permettevano alla gente di soddisfare quasi tutti i propri bisogni in un contesto di sussistenza; dopo, la plastica ha sostituito la ceramica, le bevande gassate l’acqua, il Valium la camomilla, i microsolchi le chitarre.

In tutto il corso della storia la più sicura spia dei momenti brutti era la percentuale di cibo che bisognava comprare; i periodi buoni erano quelli in cui la maggior parte delle famiglie ricavava quasi tutto il proprio nutrimento da ciò che coltivava direttamente o che otteneva per mezzo di scambi in natura e doni.

Sino alla fine del Settecento, il novantanove per cento del cibo che si consumava nel mondo era prodotto entro la cerchia del territorio che il consumatore poteva vedere dal campanile della chiesa o dal minareto.

Le molteplici ordinanze che cercavano di porre limiti al numero dei polli e dei maiali allevati entro le mura delle città ci ricordano che, tranne poche grandi aree urbane, anche negli agglomerati cittadini si produceva più della metà del cibo che si mangiava.

Negli Stati Uniti, prima della seconda guerra mondiale, meno del quattro percento di tutti i prodotti alimentari che si consumavano in una regione veniva importato dall’esterno, e queste importazioni erano in buona parte limitate alle undici città che superavano allora i due milioni di abitanti.

Oggi, il quaranta per cento della popolazione sopravvive solo grazie all’esistenza dei mercati interregionali.

Un futuro in cui la circolazione mondiale dei beni e dei capitali fosse drastica mente ridotta è oggi altrettanto sconveniente da evocare quanto un mondo moderno in cui gente attiva adoperi moderni strumenti conviviali per creare un’abbondanza di valori d’uso che la liberi dal consumismo.

Questa reazione rispecchia l’idea che le attività utili con le quali la gente esprime e soddisfa i propri bisogni possano essere indefinitamente sostituite da beni o servizi standardizzati.

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