Mercoledì 16 febbraio 2022 è stato espresso un parere contrario per il finanziamento del DDL Spettacolo da parte del Governo in Commissione Bilancio, salvo poi l’aprirsi di un nuovo spazio di confronto volto a trovare le coperture per la manovra. Tale parere sembra relegare ancora una volta il settore dello spettacolo e i suoi lavoratori a un ambito sacrificabile e secondario.
Tra le proposte in discussione nel disegno di legge sullo spettacolo si trova anche l’introduzione dell’indennità di discontinuità, uno degli emendamenti alla legge collegata al bilancio presentati dai relatori Roberto Rampi (Pd) e Nunzia Catalfo (M5S). Obiettivo di questa misura è quello di riconoscere la specifica natura “discontinua” delle professioni creative andando a colmare quei momenti di non lavoro tra una performance e l’altra. L’indennità di discontinuità, infatti, riconosce il tempo di “non attività” come tempo di “lavoro preparatorio, formazione e studio” connaturato e indispensabile a chi svolge un lavoro delle arti performative. Al contrario del SET, misura prevista dal Governo all’interno della Legge Delega, l’emendamento sulla discontinuità è l’unico che possa realmente sanare le fragilità del lavoro nel settore.
Il SET, o sostegno economico temporaneo, è concepito come una misura risarcitoria, temporanea, basata sul principio dell’indennità di disoccupazione e che per questo non comprende la natura del lavoro nello spettacolo, che nel periodo tra una performance e l’altra non è fermo ma è fatto di studio, preparazione, approfondimento e creazione. L’inadeguatezza del SET per rispondere alle esigenze del settore è dimostrata anche dal fatto che nel periodo in cui si accede a tale sostegno è prevista una formazione obbligatoria, in contrapposizione al bisogno di far emergere il “lavoro invisibile” proprio delle professioni dello spettacolo. L’indennità di discontinuità prevista nell’emendamento è invece immaginata come una integrazione continuativa al reddito che, quindi, non solo riconosce il lavoro svolto dietro le quinte ma che con il lavoro si autoalimenta, portando alla maturazione di contributi effettivi e mirando a promuovere e far crescere i professionisti dello spettacolo.
Il fatto che la sua introduzione – così come l’introduzione delle misure dell’intero disegno di legge – sia messa in discussione rischia di portare il mondo dello spettacolo ancora più indietro di quanto fosse prima della pandemia. Infatti, oltre ad allontanare la possibilità che gli ex-lavoratori dello spettacolo tornino a compiere il loro lavoro, limita anche l’ingresso di nuovi lavoratori, di certo non attratti da un settore segnato da continue chiusure e che da anni è descritto come senza tutele, senza certezze e senza riconoscimento.
I lavoratori, senza certezze e senza tutele, si sono spostati in altri ambiti di lavoro dove ci sono maggiori protezioni sociali e, soprattutto, continuità di lavoro.
La domanda che tutti oggi nel mondo dello spettacolo si stanno ponendo è come si potrà ovviare alla carenza di personale, soprattutto nel live e nel mondo del teatro dove in estate ci si aspetta un boom di eventi. Del resto, molti lavoratori hanno deciso di non ritornare in questo settore proprio per le sue fragilità intrinseche, fragilità che non si superano semplicemente con la riapertura dei palazzetti a piena capienza. Di certo un problema per un settore che nel 2019 produceva 11,4 miliardi di euro (0,6% del PIL italiano) e che senza lavoratori faticherà inevitabilmente a realizzare le stesse economie.
La scelta che è chiamato a compiere oggi il Governo è una scelta epocale per il mondo dello spettacolo italiano. Se non sarà compiuta e sostenuta una riforma rivoluzionaria oggi (quella contenuta negli emendamenti presentati da Rampi e Catalfo), difficilmente questo settore si riprenderà dalla crisi e potrà tornare a fiorire continuando a essere un ambito strategico nell’economia italiana.
|