17 Mar 2016
DALLA NUOVA RUBRICA “RIVERSI” TRE POESIE DI RENATO MINORE
AG.RF.(MP)17.03.2016
“riverflash” – La sezione “Riversi” di Riverflash, che ospita le meravigliosi poesie di autorevoli poeti italiani, si arricchisce oggi e si “vanta” di poter offrire il contributo poetico di un “illustre” personaggio: Renato Minore, giornalista, scrittore e poeta italiano, che non ha bisogno di presentazioni.
CORNICE EMOTIVA DI RENATO MINORE A CURA DI GIUSEPPE PONTIGGIA
Che Renato Minore abbia intitolato la sua raccolta di poesie, Nella notte impenetrabile, con una citazione del più enigmatico autore della letteratura latina non è soltanto un omaggio a Petronio, di cui vengono tradotti, nell’ultima sezione, alcuni versi del Satyricon (dove nocte soporifera, con aderenza analogica, viene tradotta “nella notte impenetrabile”). E’ anche, credo, un accostamento ideale, una sintonia allusiva con quella mobilità di registri e quella levità di passo che aveva indotto Nietzsche a definire Petronio “ piedi di vento”: di un vento che “guarisce ogni cosa, costringendo ogni cosa a correre”.
L’apertura di un orizzonte circolare è già attuata nella prima sezione, “ A chi contempla il cielo in una notte stellata”: dove la poesia diventa raggio cosmico, conquista antropologica e ascolto interiore in una interazione metafisica ed esistenziale di rara intensità e lucidità.
In un contrappunto sapiente e ironico seguono le nugulae della seconda sezione. Se nugae era il termine amabilmente riduttivo con cui una tradizione illustre, da Catullo a Petrarca, dissimulava le cose più personali sotto l’appellativo di scherzose e futili, nugulae, ripreso dalla tarda latinità di Marziano Capella, rappresenta una riduzione ulteriore. E sono tra i testi più felici della raccolta, nel loro declinare le quotidianità con desinenze insieme satiriche e malinconiche.
C’è nella poesia di Minore il gusto di una réverie che muove dai poeti più amati (da Rimbaud a Pessoa a Jabès) per perdersi e ritrovarsi in paesaggi nuovi, spesso sigillati da una gnome discreta e suggellati da una epigrafe finale, “Un’anima abita e custodisce il bosco”, arricchisce questo percorso di diversioni e di sorprese.
In “Foto ritratti e altro” la lunga frequentazione, anzi la familiarità leopardiana, rende nitide certe gravures, tra aneddoto e mitologia domestica, di insolita finezza. Ma la memoria è popolata di altri incontri. Sulla pagina, ma anche nella vita, come Flaiano, rievocato in Settembrata con una narratività distesa e amara.
L’ultima sezione si intitola “Cambiando registro: qualche prova”: sono “imitazioni”, in senso leopardiano, da Filodemo di Gadara e appunto da Petronio. L’eleganza ellenistica coglie un punto delicato e straniante di contatto tra il proprio declino e il tramonto del mondo. Anche qui riscopriamo consonanze nella diversità e distanza nella continuità.
Ho voluto riprendere le articolazioni della raccolta per suggerire una idea della sua ricchezza di toni, della sua complessità di accenti, della ampiezza delle sue ricerche. In Minore la presenza dei classici, in una cornice storica antropologica e cosmica, ha il potere di intensificare un’inquietudine e un disagio esistenziali, proiettandoli su altri sfondi e altre esperienze. E’ come se il presente acquistasse ulteriore durata dalla percezione dei suoi echi retrospettivi e delle sue amplificazioni corali. Per questa via Minore conferma quella autenticità e quel respiro che lo impongono come una delle voci più sommesse e insieme più forti della nostra poesia.
GIUSEPPE PONTIGGIA
LE CONCHIGLIE
La mappa non è il territorio.
Il nome non è la cosa designata.
Gregory Bateson
Approdò sulla spiaggia
assetato di mistero.
C’era la promessa o premessa
per una equa meditazione universale
sui beni prossimi o remoti
dell’esistenza.
Ma il calco della mano lo ridusse a ciò che conosceva
[o sperava.
Era poco fumo che svapora.
Pensava alle conchiglie capricciose figlie del caos.
Da qualche parte
– il posto non sapeva
neppure dove collocarlo,
nel buiore della mente
o nell’universo delle forme
sempre possibili e difettive –
dovevano pur esserci
le stralunate particelle:
se le osservi, stanno meravigliate a osservarti
e tutto è nello specchio di quello sguardo che si specchia.
Spinse l’occhio all’orizzonte.
Attese.
E nulla in vista, mio provvido signor Comandante.
n liquido si raggrumò nel friabile tunnel
di particole del mondo.
LA PIUMA E LA BIGLIA
Ciò che può essere mostrato
non può essere detto
Ludwig Wittgenstein
1)
C’erano quattro biglie colorate pronte a partire,
ma lo sparo fu rinviato
da sempre. Da sempre le biglie
formavano un quadrato
immaginario e al centro
c’era l’invisibile punto
di convergenza di tutti
i loro colori.
La pista allungata, infinita,
era una distesa
di acqua o di sabbia,
ma senza acqua nè sabbia.
2)
Rossa la prima e potevi
aver voglia di spaccarla
per trovare i semi
come dentro la melograna.
Verde la seconda come
quando saltella la capra
sopra i prati e i prati
hanno il luccichìo
della pioggia appena velata.
Bianca era la terza
ed era neve, neve
coagulata o neve sparsa
o cielo torbido che vela
le forme perché cancella
luce e ombra.
Nera la quarta ed era
specchio quasi opaco, l’immagine
riflessa era dietro
la superficie, non dentro,
come se il vuoto fosse
pieno di quel vuoto
nero nerissimo.
3)
Immobili le biglie attendevano
che dall’una venisse
la mossa per la prima partita.
Ma il silenzio
non faceva scandalo, era
il colore naturale,
rosso o verde bianco nero
come le biglie che non partivano.
4)
Dall’imbuto di quel vuoto
scese una piuma leggera
vero soffio di zefiro,
e scese in una linea
immaginaria avvitandosi
su se stessa per piccoli
movimenti che le venivano
dal suo essere così incorporea
in quel silenzio complice.
5)
Sfiorò
la biglia rossa e nel vuoto
la scossa fu elastica, dolcissima,
la biglia ruotà lentissima,
si capovolse toccando
quella verde che toccò
la bianca e la bianca corse verso la nera
e il moto ondulante si trasmise
mentre la piuma scendeva
nel fondo e forse
vi scivola ancora
sepolte nell’ imbuto
a guardarsi come
Narciso alla fonte.
SETTEMBRATA
per Ennio Flaiano
La pergola è ora un indistinto
corridoio con in fondo un ascensore
Jorge Luis Borges
1)
Posso anche averti conosciuto
(non lo rammento, ma è plausibile pensare un simile ricordo)
sulla spiaggia verso la fine degli Anni Cinquanta,
in una città non necessariamente grande
(entrambi amiano il minimo in primo piano:
ma ingrandire vuol dire conoscere, non riconoscere)
dove l’inverno tempra e affina l’animo
e l’estate è la troppo breve promessa che svapora.
Avevi la mia età d’oggi, ai miei occhi vecchissimo,
gonfio di saggezza come un mulo: non sapevo che farne,
mentre scaricavi il sigaro, con il lampo d’ironia
che dagli occhi si spandeva nella morsa delle dita.
Ricordi? Tagliavano la pineta per farne orridi antri
di Biancaneve. L’Italia era la festa di campanili, ·
tutta la cuccagna sul fiume che tu ricordavi
con le luminarie di un’altra festa verso cui serbavi
un ricordo modesto che, con il tempo e la malinconia,
s’era troppo ingigantito. Quel giorno mi hai detto,
ora posso ricordarlo:
non m’incanta l’euforia di cuori e case,
non sappiamo cosa si perde ma il guadagno è fittizio,
una gragnuola di simboli presto invaderà
quello che pensiamo sia il ripostiglio più nascosto
della nostra mente e non sapremo
più distinguere l’erba buona dalla gramiglia
(in fondo il tuo parlare aveva accensioni evangeliche).
E se anche hai detto queste parole
con il piglio di tragica noncuranza che poi
ho imparato a conoscerti, chissà se davvero ho potuto
[capirle.
Avrei dovuto imparare in gran fretta
il tono saturnino, la stanchezza, l’occhio inciso
[nel dolore
da cui fosti trafitto. Avrei dovuto forgiarmi
un altro e ancora un altro destino, più vittorioso
giocando con le biglie sulla spiaggia fino a settembre
o ottembre, il mese magico nato accorpandone
[due normali,
o chiedendo l’incantesimo d’un presente eterno. Sai:
l’eventualità del tempo ciclico che rotola su se stesso,
quando nessun orco ci inghiotte e ogni cosa rimanda
alla sua origine, senza corruzione. E se ti avessi
davvero incontrato – con il tuo fardello di inclamorosi
[successi,
nella mia apprensiva adesività al mondo –
non avresti potuto essermi né padre (troppi ne ho divorato
e d’ogni tipo per non aver compreso la ruvida,
tenera disponibilità del mio) né il maggiore dei fratelli,
quello che torna quando la casa rischia di bruciare,
e il papà vola via con l’attricetta di passaggio nel borgo.
II
Guardo la tua immagine di quegli anni, non ancora
[remissiva
come le ultime, ma già incrinata nella zona del viso
in cui sembra che tu debba chiudere il taccuino e gettare
i fogli al vento, come nella tragica scena del tuo film
[canadese.
E guardi, senza guardare, il vuoto di tutta questa vita
dopo la tua morte
che per te non è stata; e guardo la tua immagine di ieri
che non sa neppure che io ci sia. Solo una infinita
[presunzione
– di quelle che separano il nulla dalla volontà qualunque
che operosa si costruisce negandolo – può farmi pensare
che nell’orizzonte per me indecifrato ci sia non
[la presenza
ma una qualche vaga allusione a un destino incrociato.
L’uno consegna all’altro l’invisibile messaggio
di cui andiamo fieri, per un atto che nessuno ha mai
[visto e nessuno
potrà mai vedere, sigillato nel luogo dove s’incontrano
la tua stanca saggezza con la mia stitica di oggi.
Renato Minore è nato in Abruzzo, a Chieti, ma da circa trenta anni vive a Roma. Come poeta ha pubblicato .Non ne so più di prima, Le bugie dei poeti, Nella notte impenetrabile; I profitti del cuore. Come narratore: Rimbaud, I ritorni, Il dominio del cuore, Lo specchio degli inganni. Tra le suoi libri di saggistica: Mass-media intellettuali società, Il gioco delle ombre, Poeti al telefono, Amarcord Fellini, I moralisti del Novecento, La promessa della notte. Per i suoi libri, tradotti in più lingue, è stato finalista allo Strega e ha vinto tra l’altro il“Campiello”, l’ Estense e il “Flaiano”. Ha insegnato presso l’Università di Roma e presso la Luiss. ”. Nel 2014 è uscito da Bompiani una nuova edizione ampliata del “Leopardi l’infanzia le città gli amori”. E’ il critico letterario de “Il Messaggero