di Valentina Riso (AG.RF 27.01.2019) ore 19: 51 (riverflash)I consumatori italiani stanno diventando sempre più consapevoli dell’impatto ambientale e sociale sia dell’industria alimentare che di quella dell’abbigliamento, un settore quest’ultimo che nel 2020 arriverà a un valore di mercato di 42 miliardi di dollari.
I grandi brand non possono più contare su una fiducia indiscussa ma devono mettere in conto, da parte di chi compra, un occhio sempre più attento sugli aspetti che riguardano l’ambiente, la salute e le condizioni dei lavoratori.
Lo rivela un sondaggio effettuato da Ipsos MORI per conto di Changing Markets Foundation e Campagna Abiti Puliti. Il sondaggio è stato effettuato online in Italia, Gran Bretagna, Usa, Francia, Germania, Polonia e Spagna e Ipsos Mori sottolinea che «I confronti tra i vari paesi vengono fatti solo se statisticamente significativi. Trattandosi di un’indagine on line, e quindi con campione auto-selezionato, i margini di errore sono più alti. Tecnicamente la significatività e gli intervalli di confidenza si applicano solo a campioni randomizzati; tuttavia, i campionamenti causali di buona qualità si sono rivelati altrettanto accurati nella pratica».
Ipsos ha evidenziato che solo due Italiani su dieci (22%) ritengono che l’industria informi adeguatamente i consumatori riguardo all’impatto produttivo sull’ambiente e sulla popolazione e otto su dieci (82%) ritengono che i marchi debbano fornire informazioni sugli obblighi assunti e le misure adottate per ridurre l’inquinamento.
«Si tratta dell’indagine di mercato più approfondita mai realizzata relativa alla percezione da parte dei consumatori degli standard ambientali e lavorativi nell’industria dell’abbigliamento. L’indagine rivela che i consumatori si aspettano che i marchi si assumano la responsabilità di ciò che avviene all’interno delle proprie filiere e chiedono maggiore trasparenza sia per quanto riguarda le condizioni di lavoro sia per il rispetto dell’ambiente», ha dichiarato Urska Trunk della Changing Markets Foundation.
Le rivelazioni della Clean Clothes Campaign relative alle misere condizioni di lavoro nelle fabbriche in Albania e Macedonia, dove vengono prodotte le calzature cosiddette “Made in Italy” per i marchi di lusso, e ai risultati non soddisfacenti delle analisi di internal auditing relative alle condizioni di lavoro hanno causato un danno di immagine e condotto l’opinione pubblica a fare pressione affinché questa situazione cambi.
In linea generale i marchi del lusso elencati nel sondaggio non sono considerati migliori dei marchi più economici o dei rivenditori al dettaglio. Per esempio, il 10% degli italiani associa il marchio Gucci a una filiera ecosostenibile, contro il 13% di Zara e il 17% di H&M.
Per citare qualche esempio, la viscosa è una fibra vegetale che sta diventando un’alternativa sempre più diffusa al cotone o ai prodotti sintetici. Ma la produzione di questo materiale necessita di sostanze chimiche tossiche che hanno effetti nocivi documentati sull’ambiente e sulla salute delle persone, se non debitamente controllate. Più di 303mila consumatori dell’Ue hanno firmato una petizione lanciata da WeMove per chiedere all’industria dell’abbigliamento di impegnarsi nella produzione di viscosa pulita.
L’indagine Ipsos Mori ha anche rivelato che il 71% degli italiani concorda sul fatto che i marchi dell’abbigliamento dovrebbero fornire informazioni sui loro produttori di viscosa e il loro impatto sull’ambiente. Secondo il rapporto della Changing Market Foundation Dirty Fashion: on track for transformation, i brand del lusso italiani quali Gucci, Prada e Fendi sono stati inclusi tra i marchi peggiori per quanto riguarda la viscosa, accanto a rivenditori al dettaglio della fascia più bassa come Lidl e Asda.
Sempre secondo il sondaggio di Ipsos Mori, più della metà dell’opinione pubblica italiana (54%) ha la sensazione che l’industria della moda paghi salari troppo bassi ai lavoratori delle proprie filiere e due terzi (67%) ritiene che sia difficile sapere con certezza se gli articoli di abbigliamento che acquistano rispettano gli standard etici più alti.
«I consumatori non sono più disposti a comprare prodotti di quei marchi che non pagano salari dignitosi», dichiara Deborah Lucchetti della Campagna Abiti Puliti, sezione italiana della Clean Clothes Campaign. «Se l’industria dell’abbigliamento non si decide ad agire concretamente, convertendo la produzione verso una maggiore sostenibilità e legalità, è giunta l’ora che lo facciano direttamente i governi».
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