non considerata tuttavia all’altezza dei fuoriclasse della Honved. Ecco come lo stesso Ct ne raccontò lo “svezzamento” in
Credevano entrambi che contenesse parole di circostanza per i ragazzi. Invece sul biglietto c’era solo questo: centravanti, al posto di Palotas, doveva essere Hidegkuti. Palotas era già in divisa, Hidegkuti stava in tribuna. Quest’ultimo venne immediatamente avvisato e in tutta fretta, senza aver neanche il tempo di pensare, dovette cambiarsi per entrare in campo. Morale: Hidegkuti giocò in tutta tranquillità, fece una magnifica partita, segnò due gol e l’Ungheria vinse per 5-1. Quando gli fu chiesto perché tutt’a un tratto si fosse trovato in una forma così smagliante, il giocatore rispose che, siccome si era coricato alla vigilia sicuro di non giocare, aveva dormito
benissimo. Aveva trascorso tutta la giornata pacifico, senza pensieri: senza pensare alla partita e a quello che sarebbe potuto accadere se avesse giocato male. Fu così che io potei finalmente scoprire il centravanti che desideravo per la Nazionale, e che desideravo da anni. E l’evento, felice per Hidegkuti, che poté così affermarsi al massimo livello, fu esemplare per me, che ero il selezionatore. Mi diede maggiore fiducia per il lavoro successivo. Da allora posi più cura nello studio dei caratteri delle persone che lavoravano alle mie dipendenze».
Era nato il modulo a “M”, come sarebbe stato tramandato ai posteri, anche se un dato non va sottovalutato. In quella squadra, la caratura tecnica elevatissima consentiva a quasi tutti i giocatori di disimpegnarsi in più posizioni tattiche durante la partita e proprio una diffusa tendenza all’interscambiabilità dei ruoli al seguito dell’istinto di quei grandi campioni è stato visto da qualcuno come una sorta di anticipazione del fenomeno olandese degli anni Settanta. Lo stesso Puskas, ricordando quegli anni felici, ha spiegato, forse un po’ semplicisticamente: «Dietro alle nostre vittorie non c’erano molti segreti. Giocavamo per il piacere di farlo, tatticamente non esistevano soluzioni particolarmente innovative. La filosofia era quella, semplicissima, di buttare la palla in fondo al sacco, sempre e comunque. È vero, gli anni Cinquanta sono stati segnati da molti cambiamenti nell’impostazione tattica delle squadre, e anche noi ne fummo influenzati. Ma la Honved non si è mai persa troppo dietro a questi discorsi teorici. Cercavamo il risultato con naturalezza, impegnandoci fino allo spasimo, correndo fino all’ultimo respiro, senza mai risparmiarci e senza troppe alchimie tattiche». Così è non di rado per i grandissimi campioni: la facilità con cui fluiscono dalle loro doti le prodezze più straordinarie li induce a ricondurre tutto all’anarchico ordine dell’istinto.
LEZIONI A DOMICILIO
La difesa ricalcava la “M” tipica del Sistema. In porta giocava Grosics, fuoriclasse del ruolo. Davanti a lui, un trio di difensori solidi, ancorché non classificabili come campioni: Buzansky e Lantos terzini laterali, Lorant stopper. A centrocampo, era l’immenso Bozsik, considerato il più grande mediano di ogni epoca, classico e potente al tempo stesso, dotato di una nitida visione di gioco e di personalità spiccata, a dettare i ritmi del gioco, con la collaborazione dello “sgobbone” Zakarias, che assicurava copertura e corsa.
Per compiacere al massimo la vocazione delle due punte principali (gli interni Kocsis e Puskas), le ali giostravano lievemente arretrate rispetto al Sistema classico, in quanto una, il vivace Budai II o la sua riserva Toth, era un costruttore di gioco; l’altra invece, Czibor, era un fuoriclasse offensivo, con lo scatto bruciante e il dribbling ubriacante dell’estrema ideale, e giostrava da terzo attaccante, istintivamente proiettato alle incursioni nell’area altrui. Sulla loro linea, il citato Hidegkuti, in pratica il
rifinitore o trequartista della situazione, peraltro non per questo estraneo ai giochi d’area, come dimostra il suo bottino finale in Nazionale: 68 partite e ben 39 reti. Niente tuttavia, sul puro piano realizzativo, rispetto ai due “re” del gol: Sandor Kocsis, detto “testina d’oro”, probabilmente il più grande colpitore di testa di tutti i tempi, chiuse con 68 partite e 75 reti (fu capocannoniere al Mondiale del 1954, con 11 reti nelle cinque partite disputate); Ferenc Puskas, micidiale mancino, con 84 partite e 83 reti e venne accreditato, a fine carriera, di 1.328 gol complessivi. I due si completavano mirabilmente a vicenda, entrambi campioni completi, dai fondamentali da favola, praticamente inarrestabili nelle loro incursioni in area. Lo schema classico prevedeva il rilancio di Bozsik per Hidegkuti, che apriva sulle ali rimanendo accentrato e così favorendo gli inserimenti dei due interni, che partivano da dietro per andare a concludere sui servizi delle estreme. La “W” a tre punte si era trasformata in una “M” a due attaccanti, di micidiale efficacia.
La leggenda dell’Aranycsapat si snodò attraverso
fantastiche dimostrazioni di calcio su ogni campo. Tra il 14 maggio 1950 (sconfitta in Austria per 3-5) e il 4 luglio 1954 (caduta nella finale del Mondiale a opera dei tedeschi, 2-3), collezionò 29 vittorie e 3 pareggi su 32 partite, con
l’incredibile bilancio di 143 gol fatti e 33 subiti. Il che la dice lunga sulla propensione offensiva del suo gioco. In particolare, restarono memorabili tre incontri. Il primo, il 17 maggio 1953, a Roma, inaugurazione dello
Stadio Olimpico: il 3-0 alla Nazionale azzurra sfatava una lunga tradizione sfavorevole (da 28 anni gli ungheresi non vincevano sul suolo italiano); per la prima volta la radio ungherese trasmise un incontro di calcio in diretta, chiuso con gli applausi a scena aperta dell’Olimpico. La seconda suscitò un clamore straordinario. Il Ct Sebes, in occasione del successo olimpico, aveva ricevuto da
Stanley Rous, presidente del calcio inglese e futuro numero uno della Fifa, l’invito a far cimentare i propri ragazzi nel tempio di Wembley. Di propria iniziativa («E se dovessimo perdere? Faccia bene attenzione!» lo apostrofò stizzito Matyas Rakosi, segretario generale del partito comunista) aveva accettato, combinando senz’altro il match, fissato ovviamente dai Maestri con l’occhio alle loro note preferenze climatiche: novembre, per la precisione il 25, del 1953.
Mai una squadra del “continente” aveva vinto sul suolo inglese, da novant’anni i Maestri non perdevano sul proprio campo. Sebes era un maniaco dei dettagli. Si recò a Londra, all’inizio di novembre, per assistere a Inghilterra-Resto d’Europa, finita 4-4. Accortosi che il pallone non rimbalzava mai per più di mezzo metro, la mattina dopo si recò ancora a Wembley e vestito da passeggio com’era provò a correre, a condurre il pallone, a calciarlo in aria, valutandone le traiettorie. Gli operai che lavoravano sul campo lo presero per pazzo; lui prima di far ritorno a Budapest chiese in regalo all’amico Rous tre palloni di marca inglese. In patria, fece allargare un campo di allenamento per raggiungere i 110 per 70 del mitico tempio del calcio d’Albione e tre volte la settimana vi chiamava ad allenarsi i migliori giocatori ungheresi, ovviamente coi tre palloni britannici.
Ebbene, quando il giorno fatidico giunse, “l’incontro del secolo” tra i campioni olimpici e i Maestri si risolse in una abbacinante lezione di calcio a domicilio, chiusa sul fragoroso punteggio di 6-3, con tre reti di Hidegkuti, che stordì lo stopper inglese coi suoi arretramenti, due di Puskas e una di Bozsik. Il fatto destò enorme scalpore, ma ancor più ne procurò la rivincita, concessa il 23 maggio dell’anno successivo, all’approssimarsi dei Mondiali: a Budapest gli ungheresi si affermarono per 7-1: 2 reti di Puskas, 2 di Kocsis, una per Lantos, Hidegkuti e Toth.
Al Mondiale in Svizzera l’Ungheria pagò a caro prezzo la vittoria sul Brasile. Il terzo colpo di mannaia era stato fatale a Puskas, uscito dal campo con una caviglia distrutta. L’aggressione di dirigenti e giocatori brasiliani dopo il violento scontro nei quarti aveva fatto il resto, traumatizzando la squadra. Pur privi di Puskas, i magiari avevano battuto ai supplementari per 4-2
l’Uruguay. E, all’approssimarsi della gara fatidica, la finale con la Germania Ovest, ecco il
dubbio amletico: far giocare o no il malconcio Puskas? Nelle sue memorie, Sebes si difendeva asserendo che
Kocsis (morto suicida in Spagna nel 1979 gettandosi da una finestra), reduce dal poker di reti rifilate a brasiliani e uruguaiani pur senza il grande Ferenc, gli aveva parlato a quattr’occhi:
«Puskas farà parte della squadra? Mi creda, è molto difficile per me, da quando lui non gioca. Tutti mi stanno addosso, tutti mi attaccano. Qualsiasi cosa io faccia, non riesco a liberarmi di tutti, potremmo marcare il doppio di reti se ci fosse Ferenc».
Nella finale il grande, immenso Puskas andò in gol dopo appena 6 minuti, dando illusoriamente ragione al Ct, poi il riaffiorare del dolore lo fece via via svaporare dal match. L’altra grave colpa poi imputata a Sebes fu di avere scambiato le ali, schierando Czibor a destra, una vera “bestemmia”, nei commenti a posteriori. Il Ct magiaro scrisse che l’idea gli era nata dalla considerazione delle caratteristiche del terzino sinistro Kohlmeyer, colonna della difesa tedesca: era mancino puro e Czibor, che palleggiava con il destro, sarebbe stato in vantaggio, potendo effettuare le finte verso l’interno, cioè verso il centro del campo.
Quanto all’altra ala, Toth, dopo la sconfitta venne addirittura sparsa la voce che fosse il marito della figlia di Sebes e che a quella coincidenza soprattutto dovesse l’aver partecipato all’atto decisivo. Dal canto suo Sebes ebbe a dolersi di alcune decisioni dell’arbitro, anche sul gol decisivo di Rahn, che a sei minuti dal termine fissava il risultato sul 3-2 per i tedeschi. Poi, sarebbe accaduto di tutto, al povero Commissario tecnico, destinato a trascorrere in fretta dall’altare alla polvere, come
spesso accade nelle umane vicende.
L’artefice della Grande Ungheria venne accolto alla frontiera da Zoltan Vas, capo del comitato di ricevimento, che gli chiese dove fosse la figlia maggiore. C’erano infatti la moglie di Sebes, la figlia di undici anni e il figlio di dieci. Appreso che non aveva altri eredi, Vas si volse a un fotoreporter dell’“Esti Budapest” e gli disse di fotografare la bambina, da pubblicare in prima pagina con questa didascalia: «La figlia di Gusztav Sebes, che secondo certuni è la moglie di Mihaly Toth, sta per
compiere undici anni».
Sebes era esterrefatto. Di lì a poco, mentre era sulla via del ritorno, il suo appartamento in piazza Baross venne saccheggiato dai tifosi inferociti, riunitisi spontaneamente per manifestare la propria collera. Amareggiato,
il Ct rifiutò le dimissioni, nonostante le implorazioni della spaventatissima moglie. Venne esonerato solo due anni dopo, nell’estate 1956, quando ormai
la bussola del suo Paese era impazzita e la grande squadra si era dissolta assieme alla rivolta libertaria del popolo
ungherese, stritolata dai carri armati sovietici. Nei giorni della rivolta contro il regime comunista, il nerbo della squadra, costituito dai giocatori della Honved, si trovava all’estero in tournee con la propria squadra di club. Alcuni tra i più famosi decisero di non tornare in patria e, dopo non poche peripezie, vennero raggiunti dai familiari, per accasarsi soprattutto nei club di spicco spagnoli, Real Madrid e Barcellona. Il mito della “squadra d’oro”, forse la più grande di tutti i tempi, era caduto in
pezzi.
Fonti: Sport, Sport solo Calcio, romanews.it