21 Giu 2014
ACCESSO A INTERNET: UN DIRITTO AL PARI DELLA SALUTE E DELL’ISTRUZIONE
di Giuseppe Licinio (AG.RF. 20.06.2014)
“Garantire nella Costituzione l’accesso alla rete Internet”. È questa la proposta di Cultura Democratica, un think tank di giovani riformisti che ultimamente sta riscuotendo molti apprezzamenti dalle istituzioni per i ben articolati disegni di legge scritti da giovani laureati e laureandi su diversi temi di grande rilevanza (come, ad esempio, la tutela del “Made in Italy” e la regolamentazione delle attività di lobby). Guido D’Ippolito, un giovane laureato in legge e responsabile per l’innovazione digitale di Cultura Democratica, ci spiega perché i tempi sono maturi affinché l’accesso a Internet diventi un diritto tutelato dalla Costituzione al pari della salute o dell’istruzione.
Voi proponete di introdurre un articolo 34-bis della Costituzione che riconosca il diritto di accesso a Internet. Com’è nata la vostra proposta di riforma costituzionale?
La proposta, nella sua formulazione definitiva, è nata all’interno del progetto “La tua idea per l’Italia” di Cultura Democratica. Quella che era soltanto una tesi di giurisprudenza grazie a Cultura Democratica si è trasformata in un workshop (denominato “Innovazione digitale”) che ha saputo riunire giovani con idee e percorsi differenti, i quali, dopo aver ascoltato il parere di professori universitari, imprenditori, tecnici e membri dell’Agenzia per l’Italia Digitale, sono giunti a un testo condiviso e innovativo.
Qual è l’obiettivo?
Chiediamo l’inserimento nella Costituzione repubblicana di un’art. 34-bis che riconosca l’accesso ad Internet come un diritto sociale. Ciò comporterebbe che, se da un lato il cittadino ha un diritto ad accedere alla rete Internet ad alta velocità e su tutto il territorio nazionale, dall’altro lo Stato ha l’obbligo di attuare questo diritto diffondendo la banda larga ad alta velocità, in modo omogeneo, su tutto il territorio nazionale. In questo modo l’accesso ad Internet sarebbe tutelato così come sono tutelati il diritto alla salute o all’istruzione che lo Stato garantisce assicurando ospedali e scuole.
E qual è quindi la differenza tra la vostra proposta e le altre già presentate dagli altri partiti o movimenti?
L’elemento che distingue la nostra proposta è anche il suo elemento peculiare e di vera innovazione. Le proposte finora presentate chiedono l’inserimento o di un’art. 21-bis o di un secondo comma dell’art. 21 Cost. Questo perché l’accesso ad Internet è concepito soprattutto come lo strumento per estendere il diritto fondamentale delle democrazie: la libertà di espressione. Noi non contestiamo questo obiettivo (che, tra l’altro, è anche uno dei nostri obiettivi) ma riteniamo che collegare l’accesso ad Internet soltanto alla libertà di espressione sia gravemente restrittivo e… offensivo delle potenzialità di Internet. Internet non è solo un potente mezzo di comunicazione ma è soprattutto un luogo. E non un luogo virtuale ma un luogo reale in cui espandiamo e diffondiamo la nostra personalità, esercitiamo tutti i diritti e non solo la libertà di espressione, adempiamo doveri e usufruiamo di tradizionali e nuovi servizi. Quindi solo sganciando l’accesso ad Internet dalla libertà di espressione si creeranno le condizioni per un esercizio on line di tutti i diritti: dalla libertà di espressione alla libertà di riunione e associazione, dal diritto alla salute all’istruzione, dal diritto al lavoro all’iniziativa economica privata.
Ecco perché chiediamo non un articolo 21-bis, ma un 34-bis: non solo un diritto di libertà ma un diritto sociale che garantisca un servizio universale. Perché solo così l’accesso ad Internet sarà un diritto della persona a partecipare attivamente e in ogni modo alla società. E, lo voglio sottolineare, diritto di partecipare non ad una società virtuale o digitale ma alla società reale del nostro paese.
Da dove nasce l’esigenza di inserire in Costituzione il diritto di accesso ad Internet?
Nasce dal sempre più pressante bisogno di diritti della società. Una società in rapido divenire che ha visto troppo spesso sacrificati i diritti a beneficio delle fredde regole del mercato. Riconoscendo l’accesso ad Internet in Costituzione non solo si permetterebbe a tutti, e a prezzi bassissimi, l’esercizio di ogni diritto (in attuazione, tra l’altro, dell’art. 2 Cost.), ma, in attuazione dell’art. 3 secondo comma Cost., si ridurrebbero le disuguaglianze e le discriminazioni sia tradizionali, soprattutto quelle legate alle disponibilità economiche, sia nuove, come l’analfabetizzazione informatica e il digital divide. Infine, operando l’accesso ad Internet come precondizione anche all’iniziativa economica privata e al diritto al lavoro, si darebbero ottime possibilità all’Italia di uscire dalla crisi: creando nuovi posti di lavoro, incentivando imprenditori, divenendo terreno fertile per le Start-up e attirando investitori e capitali esteri. E tutto questo assicurando il bisogno all’inclusione e all’accesso ai nuovi servizi, innovative ed efficienti modalità di formazione e la creazione di nuovi lavori e professionalità. In un momento di forte bisogno dei diritti lo Stato deve quindi riscoprire il suo ruolo di garante dei diritti stessi.
Perché proporre l’inserimento di un altro articolo nella Costituzione e non un disegno di legge che preveda lo stesso diritto? Non sarebbe più rapido?
Sarebbe più rapido ma del tutto inefficiente. Esistono già leggi in materia di digitale ma sono tante e disorganiche e ciò spesso le rende contrastanti ed inutili. Bisogna quindi agire a livello Costituzionale, salendo al vertice delle fonti del diritto, per stabilire una volta per tutte i principi guida che il legislatore deve seguire per ogni legge. Solo così avremmo una legislazione in materia ordinata e funzionale. E quindi, stabilendo i principi in Costituzione, si ottempera ad un’esigenza fondamentale: quella della semplificazione normativa perché si eviterebbero tante leggi inutili che rischierebbero, vista la rapida evoluzione delle tecnologie, di diventare obsolete nel giro di settimane. Il riconoscimento del diritto di accesso ad Internet in Costituzione si colloca quindi come necessaria e logica precondizione a tutte le riforme sul digitale di cui si discute negli ultimi anni: come la PA digitale, l’identità e l’anagrafe digitale, il processo telematico, il voto telematico, la fatturazione elettronica e così via.
Come può la costituzionalizzazione di Internet ridurre o eliminare gli usi distorti della rete?
Perché tutelerebbe gli aspetti postivi della rete, giusto per dirne uno dei tanti si pensi allo sterminato patrimonio di conoscenza e di idee che circola in rete, non solo da eventuali ingerenze repressive dello Stato (e si pensi a realtà come la Cina, Cuba o, in Italia, ai vari tentativi di “leggi bavaglio”) ma anche e soprattutto dallo strapotere di soggetti economicamente più aggressivi, come Google, Apple, Facebook, che lucrano sui nostri dati personali e potrebbero limitare le nostre libertà fondamentali per motivi puramente economici e di profitto aziendale.
Perché la costituzionalizzazione del diritto di accesso ad internet ridurrebbe il potere delle grandi multinazionali che operano in questo business?
Perché si porrebbero dei paletti a tutela dei diritti dove prima regnava la legge del più forte. È chiaro che in assenza di regole il soggetto più forte, e quindi quello economicamente più potente, può facilmente imporre i suoi interessi a discapito di quelli dei soggetti deboli, delle minoranze e dei diritti. Ecco perché regolare l’accesso e l’esercizio dei diritti su Internet non vuol dire rendere meno libero Internet, anzi vuol dire garantirne la libertà e porre delle garanzie.
Esiste qualche altra nazione dove tale diritto è già stato introdotto nella Costituzione?
A livello costituzionale, almeno nel senso di cui ne stiamo parlando, no. Abbiamo qualche esempio di legge ordinaria come quello della Finlandia ma, senza andare troppo lontani, anche la Regione Umbria, con la legge regionale del 23 dicembre 2013 n. 31 recante: Norme in materia di infrastrutture per le telecomunicazioni, ha riconosciuto questo innovativo diritto. Poi abbiamo sentenze delle varie corti costituzionali e soprattutto le recenti sentenze della Corte di Giustizia dell’UE. Infine, un’importantissima apertura a queste problematiche viene dal Brasile che ha da poco approvato quella che viene definita la Carta dei Diritti di Internet che stabilisce principi e garanzie di diritti e obblighi on line.
La costituzionalizzazione di Internet quali costi prevedrebbe per lo Stato? Quali sarebbero le conseguenze economiche per gli operatori privati?
Ogni diritto ha un costo, soprattutto diritti strategici e sensibili come i diritti sociali. Diritto di accesso ad Internet vuol dire che lo Stato parteciperà coi privati, che quindi avrebbero solo da guadagnarci, alla spesa per realizzare le infrastrutture per la connessione e la banda larga. Qualunque sia la cifra è irrilevante se paragonata ai guadagni e, soprattutto, decidere di non investire in questa direzione vuol dire condannare l’Italia all’arretratezza, e già siamo agli ultimi posti nelle varie classifiche europee e mondiali. Investire nella diffusione della banda larga non vuol dire solo uno Stato più civile e con meno discriminazioni, ma vuol dire anche aumentare il PIL e creare nuovi posti di lavoro, di più di quelli che lo stesso Internet distrugge.
A riprova di ciò basti consultare i dati relativi alla crescita della diffusione della banda larga. Gli altri Stati, importanti o meno che siano, sono a tal punto consapevoli dei vantaggi dell’accesso alla Rete che investono molto nella diffusione della banda larga con crescite annue del 234% per la Turchia, 178% per l’Irlanda, 144% per la Francia, 127% per la Spagna, 123% per il Belgio. L’Italia invece cresce solo del 78%, ultima in Europa, il che vuol dire che quasi metà degli italiani non ha reale ed effettivo accesso alla Rete e solo il 4,9% è raggiunta dalla fibra ottica (dati sono presi dal Rapporto Akamai sullo stato di Internet). È facilmente intuibile quindi quanto il problema non sono i costi, anche perché si potrebbero sfruttare i fondi europei, bensì la volontà legislativa di investire nel futuro del Paese in modo profondo, organico, duraturo e sul lungo periodo.