20 Mar 2013
20 Marzo 1815: I 100 giorni di Napoleone
«Chi vuole sparare al suo Imperatore è libero di farlo» (Napoleone)
1815 – Inizio dei Cento giorni di Napoleone, che entra a Parigi, dopo essere fuggito dall’Isola d’Elba, alla testa di un esercito regolare di 140.000 uomini e di una forza di circa 200.000 volontari Il termine Cento giorni (in francese Cent-Jours) indica il periodo della storia europea compreso tra il ritorno di Napoleone Bonaparte a Parigi (20 marzo 1815) dall’esilio all’isola d’Elba e la restaurazione della dinastia dei Borbone sotto re Luigi XVIII (8 luglio dello stesso anno). La frase les Cent Jours fu usata per la prima volta dal Prefetto di Parigi, il conte di Chabrol, nel suo discorso di benvenuto al Re.[senza fonte] Il ritorno di Napoleone avvenne durante il Congresso di Vienna, che si affrettò, il 13 marzo, a dichiarare “fuorilegge” Napoleone. Il 25 marzo seguente Regno Unito, Impero Russo e austriaco e Prussia diedero vita alla Settima Coalizione, a cui in seguito aderirono altre nazioni, impegnandosi militarmente a deporre una volta per tutte Napoleone. La decisione pose le basi dell’ultimo conflitto nelle Guerre napoleoniche, terminate con la sconfitta del generale francese a Waterloo il 18 giugno dopo gli scontri di Quatre-Bras e Ligny, della seconda restaurazione della monarchia francese e dell’esilio permanente di Napoleone sull’isola di Sant’Elena, dove egli morì nel maggio del 1821. Febbraio e marzo 1814 avevano visto, tra la Senna e la Marna, l’imperatore Napoleone difendere il territorio francese contro le forze della Sesta coalizione. Incitati da Pozzo di Borgo e da Talleyrand, gli Alleati finirono per arrivare alle porte di Parigi mentre Napoleone cercava di arrestarli a Saint-Dizier. Dopo un vano inseguimento, giunto troppo tardi, dovette ripiegare a Fontainebleau. Nella sua reggia, Napoleone incaricò lo scudiero Caulaincourt – già ambasciatore di Francia in Russia e amico personale dello zar Alessandro I – di negoziare con quest’ultimo l’abdicazione in favore del Re di Roma, il figlio di Napoleone. Lo zar, antiborbonico, non si oppose ma, avendo appreso la defezione del maresciallo Marmont, posto in avanguardia all’esercito francese ad Essonne, impose l’abdicazione senza condizioni vista la rinnovata condizione favorevole in cui si trovava la Sesta coalizione. Dopo un ultimo tentativo di contattare i suoi marescialli, Napoleone abdicò e il Senato chiamò «liberamente» il futuro Luigi XVIII «re dei francesi, secondo il voto della nazione». Poiché lo zar aveva promesso un esilio degno di un imperatore, Caulaincourt propose prima la Corsica, rifiutata perché parte integrante della nazione francese, quindi la Sardegna, respinta anche questa perché appartenente al sovrano Vittorio Emanuele I. Lo Zar decise infine di esiliare Bonaparte sull’isola d’Elba, proposta subito accettata da Caulaincourt perché timoroso che Regno Unito e Prussia avrebbero potuto essere meno accomodanti. Il trattato di Fontainebleau del 6 aprile 1814[1] lasciò a Napoleone il titolo di imperatore, una rendita di due milioni di franchi dal governo francese e la sovranità dell’isola d’Elba, mentre l’imperatrice Maria Luisa divenne duchessa di Parma, Piacenza e Guastalla. Il 20 aprile l’ormai ex imperatore francese s’imbarcò a Fréjus e raggiunse Portoferraio il 3 maggio. Lo stesso giorno Luigi XVIII entrò trionfalmente a Parigi accompagnato dagli Émigré del clero e della nobiltà fuggiti all’estero durante il periodo del Terrore. I diritti civili dei francesi, annullati da anni di guerre, vennero ripristinati dai Borbone che cercarono anche di risollevare l’economia. Tuttavia, la propaganda reale non riuscì a cancellare dalla mente del popolo francese il malgoverno antecedente la Rivoluzione; in particolare i contadini, a cui la Rivoluzione aveva redistribuito le terre confiscate a nobili e clero e che non erano più gravati da vincoli feudali, vedevano con preoccupazione la possibilità (rimasta comunque una cosa molto remota) di una riforma terriera che ristabilisse lo status quo antecedente la rivoluzione.[2] Lo scontento regnava anche in parte dell’esercito, costretto dalle potenze vincitrici della Sesta coalizione a ridimensionarsi con conseguente smobilitazione (necessaria anche da un punto di vista economico) di molti soldati. Alcuni accolsero felicemente il ritorno alla vita civile, ma una parte non riuscì ad inserirsi nella società e ricordava i “bei tempi” dell’Impero.
La situazione in Francia venne portata alla conoscenza di Napoleone da alcuni suoi ex generali e uomini politici, passati agli ordini dei Borbone ma attenti a non abbandonare del tutto l’ex imperatore nel caso questo fosse ritornato al potere. All’inizio del 1815 Bonaparte giudicò i tempi maturi per un ritorno in Francia. Il 26 febbraio salpò dall’Elba accompagnato da un migliaio di soldati, quattro cannoni e dai generali Antoine Drouot e Pierre Cambronne, arrivando il 1º marzo vicino Cannes. Il generale André Masséna, a Marsiglia, venne subito informato dell’accaduto, ma non intraprese nessuna azione decisiva, permettendo così a Napoleone di dirigersi verso Grenoble per vie montane evitando volontariamente Marsiglia e la Provenza con le sue note simpatie realiste. A Laffrey, 25 km a sud di Grenoble, il 5º reggimento di linea dell’esercito francese sbarrò la strada alla spedizione, ma Napoleone seppe portarli dalla sua parte con un convincente discorso accompagnato da gesti pleateali. Napoleone quindi entrò in un clima di festa a Grenoble e proseguì verso Parigi in un’atmosfera di giubilo che raggiunse l’apice quando, il 14 marzo ad Auxerre, il maresciallo Michel Ney e le sue forze, inviate ad arrestare Napoleone, si unirono invece ad esso. Il 19 marzo Luigi XVIII e la sua corte abbandonarono Parigi, dove Bonaparte entrò il giorno dopo. Anche se lo Stato non si identificò più nella sua persona, vennero comunque compiuti grandi sforzi per radunare i parigini attorno al nuovo regime. Il nuovo governo venne formato alla fine di marzo con Cambacérès alla Giustizia, Carnot all’Interno, Caulaincourt agli Esteri, Decrès alla Marina, Gaudin alle Finanze, Davout alla Guerra e Mollien al Tesoro; capo della polizia era l’esperto Fouché. Napoleone, per tagliare ogni rapporto con il passato senza ripresentarsi nella vecchia veste di autocrate, decise di presentare una nuova Costituzione e a tal scopo, mediante Fouchè, cercò di ingraziarsi gli intellettuali e nominò Benjamin Constant consigliere di stato con l’incarico di redigere la nuova Carta costituzionale. La Commissione costituzionale elaborò molte bozze, che si dividevano nella sostanza in due tipologie di progetti: il primo, ispirato ai principi del 1791, per i quali alla base dell’azione politica stavano le decisioni di un’Assemblea legislativa eletta democraticamente, e il secondo che affermava il principio autocratico della volontà dell’Imperatore. Fu naturalmente quest’ultimo a essere accettato da Napoleone. La costituzione approvata rimase così sostanzialmente la stessa adottata l’anno precedente sotto Luigi XVIII, sotto forma di “Atto addizionale”, che venne presentato, nella premessa, come un ulteriore perfezionamento delle forme costituzionali già adottate in Francia fin dal tempo della Rivoluzione. Erano previste una Camera dei Pari, i cui membri erano scelti da Napoleone, e una Camera dei Rappresentanti, composta da 629 deputati, eletti dai sudditi francesi maschi almeno venticinquenni con voto palese – si sarebbe dovuto votare nelle prefetture – con l’aggiunta di rappresentanti degli industriali. Nell’Atto fu scritto l’esplicito divieto della possibilità di un ritorno dei Borboni in Francia.
Napoleone esitò ad ordinare una mobilitazione in massa per non scontentare il popolo, di cui conosceva bene la contrarietà ad una nuova guerra. Per guadagnare tempo e per dimostrare di volere una pace, senza tuttavia sperarci affatto, l’Imperatore francese prese contatti diplomatici con le potenze del Congresso di Vienna, che però si rifiutarono categoricamente di riconoscerlo imperatore e, anzi, il 25 marzo 1815 Regno Unito, Impero austriaco, Regno di Prussia ed Impero russo siglarono un patto di alleanza dando vita alla settima coalizione con l’obiettivo di spodestare una volta del tutte Napoleone dal trono di Francia. La coalizione era sostenuta dal denaro britannico e presto venne ingrossata dai soldati di altre nazioni europee. Napoleone ordinò quindi, l’8 aprile, una mobilitazione generale, ma l’odiata coscrizione obbligatoria venne ufficializzata solo tre settimane più tardi. L’esercito francese, che i realisti avevano lasciato forte di 200 000 uomini, difettava di ogni fornitura militare, ma le deficienze furono gradualmente colmate dallo sforzo dell’industria e della manodopera; nei giorni seguenti 15 000 volontari e 75 000 veterani si unirono all’esercito ma le necessità di guerra obbligarono a mobilitare la guardia nazionale, a revocare tutti i congedi e ad incorporare nei reggimenti di linea poliziotti, marinai e doganieri. Così facendo la Francia disponeva di un totale di 280 000 soldati a cui se ne potevano aggiungere 150 000 nei successivi sei mesi, comunque pochi rispetto agli 800 000-1 000 000 che col tempo gli alleati avrebbero mobilitato. Essendo la frontiera francese lunga dal Mare del Nord al Mediterraneo, gli alleati progettarono di sfondare i confini francesi con cinque armate: il Duca di Wellington con i suoi 110 000 soldati avrebbe attaccato da Bruxelles coperto alla sinistra dai 117 000 prussiani del feldmaresciallo Blücher, in marcia su Namur dai dintorni di Liegi; dalla Foresta Nera sarebbero invece partiti, verso l’Alto Reno, 210 000 austriaci comandati da Schwarzenberg, mentre il generale Johann Frimont con i suoi 75 000 tra austriaci ed italiani sarebbe avanzato dall’Italia fino a minacciare Lione; per ultima, l’armata russa forte di 150 000 soldati avrebbe ricoperto la funzione di riserva strategica stanziandosi nell’area centrale del Reno. Queste forze, una volta riunite, avrebbero marciato insieme su Parigi e Lione schiacciando, col peso dei numeri, le esili forze francesi inviate ad ostacolarle. All’atto pratico, comunque, gli alleati schieravano sul campo solo gli eserciti di Wellington e Blücher perché gli austriaci sarebbero arrivati nelle loro posizioni sono a luglio ed i russi sarebbero stati ancora più in ritardo. A Napoleone si prospettarono quindi due linee d’azione: o ammassare le truppe tra i fiumi Senna e Marna preparandosi a difendersi da due fronti, o attaccare il prima possibile le forze alleate dislocate in Olanda. Benché fossero disponibili, per quest’ultima opzione, solo 125 000 uomini a fronte dei 209 000 degli avversari, una schiacciante vittoria avrebbe potuto rafforzare l’opinione pubblica francese e quasi sicuramente la sconfitta degli anglo-olandesi (che si sperava fosse seguita dalle dimissioni del governo di Lord Liverpool) avrebbe comportato una rivoluzione filo-francese in Belgio, che avrebbe così fornito un nuovo bacino di truppe con cui fronteggiare austriaci e russi. Tenendo anche conto delle divergenze politiche tra Prussia e Regno Unito, se l’esercito francese fosse riuscito ad incunearsi tra i due eserciti sconfiggendoli separatamente con una superiorità numerica locale (strategia della “posizione centrale”) questi si sarebbero ritirati lungo le rispettive linee di rifornimento favorendo la loro sconfitta. Napoleone e lo stato maggiore francese optarono dunque per un repentino attacco verso l’Olanda. I generali Rapp, Lemarque, Lecourbe, Suchet, Brune, Clausel e Decaen avrebbero avuto il compito di mantenere salde le frontiere e di reprimere eventuali rivolte realiste.
Così si giunse al fatale 18 giugno 1815, «la giornata del destino» descritta anche da Victor Hugo, quella della battaglia di Waterloo. Il piano strategico generale di Napoleone venne mandato all’aria dall’inefficienza dei suoi marescialli, principalmente Grouchy, il quale era stato inviato a distruggere la colonna prussiana sfuggita alla battaglia di Ligny, ma in pratica commise l’errore di inseguire solo la retroguardia delle forze prussiane che si erano intanto riorganizzate e che, grazie alla loro determinazione, riuscirono a ricongiungersi con Wellington proprio nel bel mezzo della battaglia di Waterloo sì che le forze inglesi del duca di Wellington, unitesi a quelle prussiane, colsero l’opportunità di sconfiggere i francesi.[145][146] Napoleone compì non pochi errori, tra cui quello di non affidarsi al maresciallo Davout, lasciato alla difesa di Parigi, ma a Emmanuel di Grouchy, brillante comandante di cavalleria, ma al primo vero incarico come comandante di più corpi d’armata, ed a Ney (l’eroe di Borodino), famoso per ardimento ma non per la sua sapienza strategica, il cui comportamento inutilmente focoso fu fra i fattori determinanti della disfatta. Ultimo ad arrendersi fu il giovane generale della Guardia imperiale Cambronne[147] che sacrificando l’intera Guardia consentì al resto dell’esercito sconfitto di ritirarsi senza ulteriori danni alla volta di Parigi. Napoleone schierò le sue ultime forze in quadrati e iniziò una lenta, ordinata ma drammatica ritirata. «Wellington è un pessimo generale. Stasera ceneremo a Bruxelles», aveva dichiarato la mattina della battaglia. In serata, l’imperatore era sulla strada di ritorno per Parigi conscio della certezza della fine di ogni suo sogno.[148] Impostagli dalla Camera la nuova abdicazione, sotto le pressioni del potente Fouché («Avrei dovuto farlo impiccare prima», sbottò Napoleone),[149] egli dichiarò di immolarsi «in olocausto per la Francia»[148] e chiese invano che venisse rispettata la sua volontà di porre sul trono all’età giusta suo figlio Napoleone II. Le forze nemiche, viceversa, entrarono a Parigi e rimisero sul trono Luigi XVIII. Napoleone si rifugiò al castello di Malmaison, la vecchia casa dove aveva abitato con la moglie Giuseppina, morta da poco. La sua intenzione era di fuggire negli Stati Uniti, ma rifiutò di travestirsi come sarebbe stato necessario per sfuggire alla cattura, perché ciò avrebbe infamato il suo onore.[150] Invece, con un gesto storico, il 15 luglio 1815 Napoleone si arrese agli inglesi salendo a bordo della nave HMS Bellerofont.[151][146] Condizione della consegna era la deportazione in Inghilterra o negli Stati Uniti, ove intendeva vivere soggetto al diritto comune e con lo status di privato cittadino. Il capitano Maitland, in rappresentanza del principe reggente, venne meno alla parola data, e Napoleone venne tratto in arresto e condotto dal Northumberland a Sant’Elena, piccola isola nel mezzo dell’Oceano Atlantico.